Nel nome di chi
Valeria Collina è la madre di Youssef Zaghba, l’italo-marocchino che faceva parte del commando di 3 attentatori che il 3 giugno 2017 ha seminato terrore e morte nel duplice attacco terroristico di Londra al London Bridge e al Borough Market. Otto le vittime e più di quaranta i feriti.
Ho conosciuto per caso Valeria nel primo autunno dello scorso anno. Il suo libro doveva ancora uscire. Inizialmente ci siamo raccontate le nostre esperienze di conoscenza, lei mi ha parlato della sua conversione all’islam avvenuta quando aveva 40 anni, io le ho raccontato della mia esperienza brasiliana a Salvador, con le comunità dei Terreiros, dei Pai e delle Mae de Santo.à
Appena uscito il libro, l’ho letto: ero rimasta colpita dal suo grande coraggio, convertito nello scrivere di un dolore così forte, così vivo; mi sono interrogata più volte sulla forza di attraversare e rendere in qualche modo pubblico un dramma ancora in corso e farne strumento di crescita. Credo che leggerlo possa aiutare tutti noi a vedere quella parte di realtà che non interessa alle cronache. In questo senso la lettura ci porta dentro a un dramma personale che è anche collettivo nel venire a conoscenza di giovani, donne, bambini che si buttano via disprezzando così quanto di più divino ci è stato donato. Io credo invece nell’evitare di giudicare e riflettere sulla disumanizzazione dei nostri tempi. «Ogni sera mi fermo a riflettere su ciò che avrei potuto, o dovuto, affrontare diversamente…» – così scrive Valeria, mentre macina dentro di sé un destino che riguarda tutti.
Grazie, Valeria, per avere accettato di parlare di un argomento che so essere tanto doloroso per te. Perché hai scelto di scrivere un libro su questo tuo dramma?
«Mi è stato chiesto da una casa editrice e ho accettato. Inizialmente volevano che scrivessi sulla mia vita, ma non l’ho ritenuto interessante. Poi vedendo che la mia storia veniva «venduta» parlando dell’islam come fonte di ogni male, ho accettato anche di parlare di me, di quello che è per me, per gran parte della mia comunità, l’islam».
Il tuo libro parla anche del tuo dramma, sarà stato doloroso scrivere, lo hai fatto «subito» perché?
«È stato doloroso ma salvifico, innanzitutto come impegno alla scrittura, al ricordo, ma soprattutto alla ricerca di un senso di quello che era successo. Come se tutta l’angoscia che poteva abitarmi si fosse trasformata in energia che macinava il passato e lo restituiva come forza per agire e cambiare».
C’entra in questo la tua fede?
«Sì, certamente, anche se proprio da quei momenti la mia fede ha cominciato a subire grandi trasformazioni. L’idea di un Dio Misericordioso e luminoso mi sosteneva sempre ma le sue declinazioni contingenti si sfumavano».
Cosa intendi?
«È come se non mi bastassero più delle declinazioni particolari della divinità ma avessi bisogno di arrivare a una dimensione assoluta di Dio che prescindesse dalle religioni. Ancora penso che Dio abbia parlato agli uomini con lingue diverse per farsi capire da tutti e gli uomini stessi abbiano capito in modo diverso. La consapevolezza, o almeno la necessità di Dio, è sempre mescolata con la storia e con la cultura».
Secondo te è possibile che anche tuo figlio stesse cercando una dimensione assoluta di Dio sacrificando la sua vita per questo?
«No, il Dio assoluto a cui io aspiro non potrebbe mai pretendere la vita di chicchessia. Quello che ha turbato la mia fede di musulmana è stata la possibilità di questo fraintendimento: considerare i versetti del Corano Parola di Dio valida in ogni tempo e luogo, senza considerare il contesto storico nel quale si collocavano».
Ciò che è accaduto ha modificato la tua fede?
«Sì, l’ha modificata, anche se rimango all’interno della tradizione che ho incontrato, che continuo ad amare e all’interno della quale ho cercato di educare i miei figli.
È una tradizione che affonda le radici nei monoteismi precedenti, differenziandosi per un’assoluta unità e unicità di Dio. Le differenze teologiche, se dimenticate, lasciano trasparire un sentimento religioso, un’ingiunzione alle buone opere che può solamente unificare un’umanità di figli di Adamo alla quale Dio si riferisce nel Corano. L’inclusiva comunità degli uomini è quella a cui voglio appartenere. Se il noi musulmano è definito in opposizione a un loro, questa identità forte può essere rifugio di individui fragili, costruzione di un nemico. E io credo che questo sia avvenuto per Youssef. Dopo ciò che è avvenuto a Londra ho realizzato che era possibile un percorso all’interno dell’islam cheàportasse a questo: ciò mi ha provocato un iniziale rigetto e poi una consapevolezza. Ho capito che il fondamentalismo, in qualsiasi religione, porta a conseguenze tragiche. Quando una persona, come potevo essere io prima dei fatti, crede che solo la propria religione sia l’unica e vera, nei casi di fragilità si possono creare reazioni inaccettabili».
Mi ha colpito questa considerazione: «Non voglio pensare che quella sera Youssef si sia sentito così onnipotente da voler decidere del destino di altre persone. Che abbia indossato la veste del giustiziere… La polizia mi ha anche chiesto dove avrei voluto che fosse sepolto… Non mi sarei però occupata di nulla perché non ho voluto prenderne parte. Non volevo nessun ruolo in questo incubo». Non hai perdonato la sua fragilità?
«Una madre non può che amare incondizionatamente, sperare che le persone che Youssef ha colpito nel corpo e nell’anima possano perdonare e, soprattutto, chiedere a Dio Misericordioso di perdonare. So fare solo così».
Valeria Collina, Brahim Maarad, Nel nome di chi, Rizzoli 2017, Milano, pp. 254, euro 17,00