Migranti e tempo dell’urgenza
Lavoro come coordinatore di una comunità che accoglie minori stranieri non accompagnati e, in ambienti separati, alcuni adulti. In altro ambito seguo lo sviluppo di un progetto di affiancamento familiare, laddove spesso le famiglie italiane affiancano famiglie straniere. Nella mia esperienza, nelle riflessioni condivise con colleghi e famiglie, il tema del tempo torna a farsi presente come elemento significativo. Il tempo come luogo da abitare.
Tempo del vivere in emergenza, un tempo breve e senza progettualità quello che abita colui che è in fuga. Parrebbe un tempo senza risorse e invece ne ha molte. È un tempo estremamente reattivo, in cui non c’è intervallo per progettare o per pensare: bisogna reagire. Compressi in un inespansibile qui e ora. Vivendo con il fiato corto. L’ineludibile urgenza che non può mediare (non c’è tempo, non c’è spazio) forza lo sviluppo di una grande capacità adattiva. Il migrante è come l’acqua: prende la forma dello spazio che gli è concesso. A volte non basta adattarsi e allora bisogna creare soluzioni nuove, inattese, capaci di trovare gli spazi a cui nessuno aveva ancora pensato. Il migrante è creativo ma non per libera scelta, per esercizio vitale. La cosa sorprendente è che il migrante trova anche il tempo per ridere, non appena può non si fa scappare l’occasione: ride cogliendo il bello di quel momento e ride di cuore. Ha imparato ad abitare il qui e ora.
Raspare e proseguire
Chi lavora il legno sa che c’è una lima, la raspa, che è uno strumento grezzo che lascia le strisciate dei suoi denti specie nei legni morbidi. In meccanica è la lima bastarda, quella che affronta il pezzo da sgrossare. Il migrante che è in urgenza raspa ogni cosa che trova, lo fa in maniera bastarda. Non c’è tempo per il lavoro di fino. Raspare e proseguire.
La storia di chi parte inizia quando non si può più restare, il tempo della casa è finito. Non c’è più casa, c’è solo il luogo del dolore, del pericolo, della paura. Uno fugge dalla sua casa solo quando la sua casa ha la forma della bocca di uno squalo. Si parte, si porta quel che si può, se qualcosa si può. E si va sulla strada dove non si può fare altro: raspare e proseguire.
E diventa uno stile di vita, un modo di essere. Lo spazio di valutazione etica delle azioni viene spesso mangiato dall’incalzare degli eventi. Però una volta arrivati riemerge il ricordo e a volte è duro accettare la storia. Le azioni subite e quelle agite. Nel ricostruire il viaggio, Yus mi ha detto: troppo dolore, non voglio ricordare. Cid era sopravvissuto alle carceri sahariane, aveva una malattia a trasmissione sessuale, ma non era successo nulla. Sly aveva iniziato a bere, non reggeva il ricordo di aver visto altri andare sotto mentre lui restava a galla. Ho pensato che avere tempo e spazio per poter fare scelte etiche è un lusso al quale mi sono abituato, ma forse è meno scontato di quanto io mi illuda.
Ecco, allora, io sono stato il legno morbido su cui i migranti hanno raspato quel che a loro serviva. Non capivo ma non mi sono ribellato, qualcosa intuivo, ma poco. All’inizio sentivo il dolore delle strisciate che restavano su di me. Adesso sento ormai il beneficio di essermi fatto togliere qualcosa di pesante che mi teneva fermo. Non sono un migrante e non ho nessuna voglia di esserlo, ma adesso il mio tempo è più leggero. Il tempo dei migranti segue la legge dei gas: occupa tutto lo spazio che c’è a disposizione in ogni direzione. Può diventare un tempo ampio.
Ci sono fughe illegittime?
Mi chiedo a volte quanto conti da che cosa si sia in fuga. Me lo chiedo perché noi ne facciamo un vaglio. Decidiamo da cosa è legittimo o accettabile fuggire, lo decidiamo in base alle nostre scale di valore, lo decidiamo nei nostri parlamenti o dalle poltrone delle nostre case. Applichiamo, credo anche giustamente, le nostre scale di valore dimenticando però di rapportarle alla realtà di vita dell’urgenza. Non sono i casi evidenti di guerra e di persecuzione che mettiamo in discussione (ultimamente anche quelli). Eppure un ragazzo che fugge da un padre padrone che lo tiene come un servo della gleba non ha diritto a fuggire? Un giovane di sedici anni non ha diritto a fuggire da una terra che è solo polvere e sassi?
In fondo mi sembra che la grande fuga resti ancora quella dalla miseria. Non solo la miseria materiale ma anche quella progettuale. La miseria di speranza quando si incolla a un luogo finisce per renderlo veramente insopportabile. Il tempo allora si fa breve. Si deve partire.
Le famiglie italiane, che hanno affiancato famiglie straniere in alcuni progetti di solidarietà, sono spesso rimaste sconcertate dalla lunghezza dei tempi di reazione/organizzazione e dalla mancanza di progettualità con cui hanno dovuto fare i conti per poter raggiungere gli obiettivi (a volte minimi) del patto iniziale. Ci siamo chiesti assieme il perché di questa difficoltà. Una risposta è che chi vive il tempo dell’incertezza assoluta, quella relativa ai bisogni essenziali, non è abituato a progettare. Non lo fa perché non ha senso pensare a cosa succederà a fine mese se non si ha la certezza di vedere il giorno dopo. Il futuro dei figli è legato al pasto di domani, a quello che ci chiederanno i passeur che incontreremo sul cammino. Il migrante in fuga non fa progetti di lunga né media percorrenza: sa che tanto sarebbe inutile. Ha una meta lontana, un orizzonte verso il quale muove senza poter conoscere il sentiero. Probabilmente chi soffre una reale indigenza vive allo stesso modo.
Un ragazzo uscito dalla comunità non aveva dove dormire né da mangiare. Nel tardo pomeriggio abbiamo trovato una soluzione. Mi ha salutato sereno e tranquillo: «Bene dai, ci sentiamo domani». Io ero agitato, lui no. Lui era a posto, il suo orizzonte di emergenza era saturato. Adattivo, creativo, reattivo, vitale: lui sì, io meno.
L’arroganza dei mutui trentennali
Pensando al mio tempo, al nostro tempo occidentale, percepisco un’arroganza mostruosa, che mi fa quasi paura: l’arroganza dei mutui trentennali. L’arroganza di chi crede di dominare il tempo e poi non ne ha mai a disposizione. Una contraddizione evidente mi pare, così come mi sembra venga deliberatamente nascosta. Nascosta, non negata. Ecco allora la supponenza del tempo occidentale, di un etnocentrismo che si fa sempre più assoluto anziché consapevole (o forse consapevole strumento di potere). Un tempo sempre più intrappolato nel consumare. Senza consumo non c’è divertimento, non c’è piacere, non c’è tempo goduto. Penso alla quantità di complementi (che poi si fanno sostanza decisiva) di cui necessitiamo per poterci divertire o convincerci di stare bene. Ormai lo spazio del divertimento viene vissuto come un tempo a parte, una vita alternativa che sopporta la vita quotidiana intesa come utilità funzionale. Sembra una schizofrenia del tempo. Oppure come se la gioia fosse divisa da noi stessi e non fosse un pezzo dell’intero che ciascuno di noi è.
Il modo di vivere il tempo finisce per indurre scale di valori diverse. La prima incentrata sull’urgenza: il diritto di vivere, di procurarsi da mangiare, di cercare una casa dove vivere, di provare a costruire una vita abbastanza serena. La seconda invece, pur partendo dagli stessi presupposti, li ha arricchiti di una dimensione culturale decisiva, che riguarda la libertà della persona e il suo diritto alla conoscenza e alla ricerca della felicità. Qualcosa però è intervenuto ad appesantire il tempo occidentale: la sua monetizzazione che si è trasformata in monetizzazione della persona. L’ipertrofia del consumo ha prodotto il diritto al superfluo e, a volte, all’inutilità. Penso che la felicità sia una dimensione dello spirito da cercare e non un diritto da rivendicare. Che poi il diritto di uno è sempre il dovere di qualcun altro, ma chi sarebbe il responsabile, il garante della felicità altrui?
Peraltro sembra che questi nostri diritti siano «diritti acquisiti». Per cui siamo nella posizione di chi difende il proprio benessere (ammesso e non concesso che sia veramente tale) dagli altri che vogliono indegnamente accedervi, convinti che ormai nulla più potrà toccare il nostro esito raggiunto.
Il terzo tempo
L’eccesso di urgenza nel tempo del vivere rischia di ridurre le regole etico-morali in funzione del sopravvivere. L’eccesso di sicurezza rispetto al tempo, sommato alla dimensione consumistica, favorisce chiusure egoistiche e arroganti di padronanza.
Difficile trovare il modo giusto ma forse tocca a chi ha spazio di pensiero far sì che chi non lo ha ne possa trovare. Non lo si può fare pretendendo da loro il cambiamento, ma iniziando ad attuarlo su di noi. Ci viene offerta una grande occasione di recupero di civiltà, siamo chiamati a riconfrontarci con le istanze di base. Potrebbe essere un’occasione per ripensare il nostro tempo come tempo della condivisione, della reciprocità. Un tempo rivolto anche a noi stessi ma non solo a noi stessi. Tempo aperto e non chiuso. Il tempo dell’alterità accolta come occasione di crescita. Un tempo che dia spazio per la progettualità, senza cadere nell’arroganza del dominio. Un tempo che insegni al denaro che occorre riposare per tenere i ritmi dell’uomo, senza sottomettere l’uomo al tempo del denaro. Una sorta di terzo tempo, come ci insegnano i rugbisti, il tempo nel quale ci si siede alla stessa tavola. Che tanto, poi, di terra ne abbiamo una sola e in fondo calpestiamo tutti la stessa.
Giordano Barioni coordinatore comunità educativa
Opera don Calabria – Ferrara,
e, con la moglie, responsabile della commissione
diocesana della famiglia