L’Oriente non c’è più: abbiamo dimenticato Sarajevo
«Dobbiamo andare e non fermarci mai,
finché non arriviamo.
Per andare dove, amico?
Non lo so, ma dobbiamo andare».
Jack Kerouac
«Spesso la dolcezza dei popoli è
direttamente proporzionale
al loro furore aggressivo,
capace di accendersi in un attimo.
La propaganda fa più presa sulle anime semplici:
sono quelle che si spaventano prima,
e prima trasformano la paura in
violenza difensiva».
Paolo Rumiz
Piove. Il cielo è nero, le strade si riempiono d’acqua, da ogni angolo spuntano uomini e donne che vendono ombrelli. Gaetano, in qualità di fotografo, è avvilito. Vikica, la nostra preziosa guida, è molto dispiaciuta. Ambedue temono che la pioggia possa incrinare la bellezza di Sarajevo. Non è vero, perché più camminiamo e ci addentriamo nel centro storico, e più l’architettura imponente dell’Impero austro-ungarico lascia spazio a quella bassa e orientale del quartiere ottomano, e così appare chiaro che questa non è una città come le altre, omogenea e compatta. Qui si trova la porta tra Oriente e Occidente, il punto esatto dove l’uno sconfina nell’altro e proprio per questo la chiamano «Gerusalemme d’Europa».
Tutti insieme, uniti al fischio dell’arbitro
A pochi passi dalla cattedrale cattolica c’è la moschea. Ci sistemiamo la sciarpa attorno al collo, ci togliamo le scarpe, entriamo. Non è l’ora della preghiera, i tappeti sono vuoti. È l’ora d’inizio della partita, ed è la prima volta che la Bosnia partecipa ai Mondiali di calcio. Per novanta minuti questa terra non è più divisa fra musulmani, cattolici e ortodossi. Ci si dimentica che è spaccata in due: da una parte la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, dall’altra la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, e che sono tre i presidenti che si avvicendano a rotazione. Lo Stato centrale è solo una facciata e la guerra ha distrutto tutto. Dopo vent’anni niente è risolto, né aggiustato, né ricucito.
Quando usciamo di nuovo in strada, ogni bar, ogni negozio, ogni ristorante ha almeno un televisore sintonizzato col Brasile. L’impresa in cui non è riuscito nessuno, riesce al calcio: la Bosnia esiste, non è solo una parola. Fin dal fischio d’inizio, è chiaro che, nella sua semplicità, si ricompone una nazione e forse, piano piano, si farà.
Sono tutti seduti a guardare, chi beve una birra, chi fuma il narghilè, tabaccoàprofumato alla mela. C’è aria di festa e da questa piazza i muri ridotti a colabrodo dai proiettili, le cicatrici dei rastrellamenti casa per casa, non si vedono, non si immaginano neppure.
Vincerà la Bosnia tre a uno. Non servirà per la qualificazione, perché è già eliminata, ma non è neppure una vittoria inutile: servirà a questi ciottoli, a questa serata, ai volti che incontriamo.
La casa delle memorie
Arriviamo alla Biblioteca nazionale. L’hanno riaperta da pochi giorni, proprio nella settimana in cui ricorre il centenario dell’uccisione dell’Arciduca Francesco Ferdinando.
In tutta Europa si parla di questo anniversario, della miccia che fece esplodere la Grande Guerra, della Biblioteca scampata a due conflitti mondiali, ma crollata sotto le bombe del 1993.
«È stato un urbanicidio – spiega Vikica – radevano al suolo i punti di riferimento, la cultura, i libri, la speranza»… Intanto era iniziata la «pulizia etnica», con la Bosnia che diventava terra di conquista e di spartizioni. Vennero commesse tantissime e «terribili atrocità», culminate nel genocidio di Srebrenica.
Il silenzio pesante e rumoroso è ciò che colpisce dopo la guerra civile nella ex Jugoslavia. Il silenzio delle migliaia di morti innocenti. Il silenzio della vergogna. Nessun cenno fu mai fatto sui campi e i luoghi di stupro. Un silenzio tombale sulle centinaia e migliaia di donne, prese e portate in massa dentro capannoni abbandonati, ex scuole, ex fabbriche, violentate per giorni. Lo stupro usato come arma da guerra, solo tardivamente riconosciuto come crimine contro l’umanità.
La voce delle donne
A parlare sono rimasti solo gli occhi delle donne, che hanno sopportato tre anni di violenze e di battaglie, portando sulle loro spalle tutto il peso del conflitto.
Ora sono loro, le donne bosniache, a rompere l’omertà. Sentono l’obbligo morale di ricostruire, per loro e per i loro figli, di andare avanti, senza voltarsi a guardare gli orrori del passato, in una Bosnia ancora sospesa in un conflitto congelato.
Hanno impiegato molti (troppi) anni prima di trovare il coraggio di parlare, prima di capire che la colpa non era loro, ma di altri. Il loro silenzio era nato dal fatto che ne sentivano una vergogna profonda, per cui non erano in grado di ribellarsi. Quando hanno interiorizzato che, con il loro silenzio, la guerra continuava a vincere, è arrivata la forza di denunciare e di risorgere.
E qui è cominciato il «dopo». La maggior parte di loro, ora, sono capifamiglia, perché la guerra ha portato via i mariti. Sono madri e lavoratrici, orgogliose e indipendenti. Il loro riscatto è cominciato dal lavoro, dal preservare un territorio perché venisse abitato e non abbandonato.
La loro felicità, ribadiscono oggi, è la libertà delle piccole cose. Potersi svegliare al mattino, uscire di casa, allevare animali domestici, raccogliere le erbe, i funghi, i frutti di bosco, tesori intatti che la natura preserva e custodisce.
La scuola aperta del vescovo Pero Sudar
Piove sempre più forte e comincia a far freddo. Siamo in attesa d’incontrare Pero Sudar, il vescovo cattolico, ausiliare nella diocesi di Sarajevo. Un uomo colto, mite e coraggioso. Salendo l’interminabile scalinata che porta sulla collina, dove è stata ricostruita, dalle rovine della guerra, la grande struttura che ospita tutte le attività educative e culturali della diocesi (seminario, scuole di ogni ordine e grado, teatro, ecc.) ci appare in tutta la sua bellezza, in un solo sguardo, la città di Sarajevo.
La città così circondata da montagne e colline, cinta in un abbraccio di verde, sembra perfetta, sia per un assedio, sia per ricominciare un’altra storia.
Paolo Rumiz, giornalista e scrittore italiano, editorialista de la Repubblica, nato e residente a Trieste, che ha seguito dal 1986 gli eventi dell’area balcanica e danubiana e durante la dissoluzione della Jugoslavia ha vissuto in prima linea il conflitto, prima in Croazia e successivamente in Bosnia Erzegovina, confessa, con dichiarato pessimismo, che nello spazio di alcune generazioni non prevede alcuna ricostruzione culturale e umana di Sarajevo e della Bosnia: «L’Italia, che lo sappiate o meno, finisce a Mestre. Solo che da lì non comincia l’efficienza mitteleuropea. Sul binario per Trieste cominciano i Balcani. A Mestre i rapidi diventano accelerati, i treni «corriere sostitutive», il percorso una spola fra piccole stazioni, perse nel buio. Sono su un Orient Express che non è un espresso e non è nemmeno Oriente. In Europa l’Oriente non c’è più, l’hanno bombardato a Sarajevo, espulso dal nostro immaginario, poi l’hanno rimpiazzato con un freddo monosillabo astronomico: «Est». Ma l’Oriente era un portale che schiudeva mondi nuovi, ora l’Est è un reticolato che esclude».
Il vescovo Sudar, pur fra enormi difficoltà create dagli integralismi, presenti e messi in atto con notevoli pregiudizi, sia sul versante religioso (la comunità cattolica della diocesi di Sarajevo ha perduto, in vent’anni, più di 200 mila fedeli, costretti o rassegnati a emigrare) sia in quello dell’appartenenza etnica, ha scelto con coraggio e intuito profetico di investire, come comunità cristiana, sul campo interculturale e sui processi educativi collettivi.
Lui crede e spera che ciò servirà a scoprire nuove strade al confronto e a recuperare spazi e momenti creativi sia nella convivenza delle differenze, sia per dare avvio alla formazione di un nuovo gruppo dirigente.
Individualismo e processo educativo
L’affermarsi della singolarità e dell’emancipazione da ogni vincolo ha prodotto un processo di individualizzazione, accentuato la separazione dal gruppo, contribuendo a far sì che il singolo perda l’idea del limite e interpreti la libertà come assenza dai legami, dai rapporti sociali e affettivi.
I ragazzi e i giovani, oggi, vivono nel mito del creditore. Non sentono nessun debito verso la memoria e le vecchie generazioni, rivendicando solo diritti sul loro futuro, entrando alla fine in rapporto con gli altri solo attraverso calcoli razionali per combinare l’utile reciproco.
Il risultato di tutto questo?
Una società senza amore, fatta di discontinuità, fatta di tante storie, ma che non ha più una storia. Completamente l’opposto di una cultura comunitaria e solidale.
La formazione scolastica – conclude il vescovo di Sarajevo – o produce un processo educativo di vivere assieme o è semplice istruzione e piatto aggiornamento, impedendo così la crescita e lo sviluppo dei legami sociali. In altre parole, la funzione fondamentale della scuola è quella di contribuire a far nascere e far crescere una leadership locale in grado di guidare e cogliere i nuovi segni dei processi in atto. L’ignoranza etica, spirituale e civile è ormai un fatto abituale, ovunque ci sia il monopolio informativo dei media accanto all’arroganza di chi ha un pur minimo di potere. Quando ognuno maturerà la coscienza critica del male, e riuscirà a riconoscere quel male di cui è responsabile, solo allora avrà luogo quel risveglio che cambierà la sua propria vita, e lo spingerà a rifiutare di essere pedina irresponsabile di una cattiva mediazione.
Farsi carico dei mali del mondo
Agli esseri umani va il riconoscimento della loro dignità, non la tolleranza. Questa tolleranza, semmai, va data agli effetti del male: cioè l’odio, l’incomprensione, l’irresponsabilità, l’ingiustizia, la guerra, l’emarginazione. Il male produce effetti velenosi, le cui conseguenze vanno «portate», ossia trattenute e spente, prese in carico per essere superate. Non ci sono alternative: o scarichiamo sugli altri il negativo, oppure ce ne facciamo carico personalmente per riaprire spazi al bene. Senza questa disponibilità, nessuno può portare un frutto positivo nella sua vita e nella storia. Il delitto più grave compiuto in Bosnia è stata l’azione di spegnere nelle persone la naturale capacità di amarsi reciprocamente.
Vedendo le cose accadute in Bosnia, ciascuno di noi sarà costretto a fare i conti con la propria coscienza e accettare la sfida propria dei nostri tempi, dove ciascuno deve prendere la vulnerabilità e le ferite del mondo dentro di sé ed essere capace di sperimentare la gioia della solidarietà.
Nel mondo occidentale stiamo vivendo un momento oscuro e senza guide sicure! Ci troviamo di fronte a omicidi di massa, a stragi contro le minoranze religiose o popoli di culture diverse, e non riusciamo a costruire alternative feconde Noi, nonostante le fatiche e le paure, abbiamo deciso di andare avanti e di non fermarci mai, finché non arriveremo.
Dico a tutti: non preoccupatevi, lasciate che sia la vita a decidere il vostro percorso e non sia un percorso precostituito a decidere la vostra scelta. Imparate dal viandante a camminare. Disorientati, ma con una coscienza libera.