L’indifferenza cancella la differenza
I limiti di una religione borghese
Un’immagine che ritengo molto espressiva dell’indifferenza teologico-religiosa è quella, proposta nella narrazione parabolica del buon samaritano (Lc 10,25-37), delle due figure con ruoli specifici nella struttura religiosa giudaica dell’epoca: il sacerdote e il levita. Lungi dall’avanzare riflessioni di tipo antigiudaico, i due personaggi – posti di certo non a caso da Luca nel racconto – rappresentano il simbolo, per ogni tempo, di un sistema religioso che si configura in forma antinomica rispetto alla capacità di cogliere «la differenza» e di farsi coinvolgere da essa, incarnato dal samaritano.
C’è un verbo greco, ripetuto due volte, nel brano lucano che esprime in modo forte l’indifferenza: antiparerchomai. Alla lettera si potrebbe tradurre «passo oltre dall’altra parte» (anti-para-erchomai). In entrambi i casi si dice che essi «videro», cioè si resero conto della situazione in cui si erano imbattuti (o contro la quale avevano urtato) casualmente, ma non si fermarono, e si misero a camminare sull’altro lato della strada. Non riescono a cogliere il momento storico, nonostante la frequentazione delle sacre liturgie e l’ascolto costante dei testi ispirati, elementi fondamentali della loro esistenza quotidiana. L’esperienza religiosa, invece che inserire queste persone nel cuore del mondo e renderle pulsanti per le sofferenze che vi si agitano, li giustifica a non prendersi cura dell’inatteso dolore dell’uomo che giace sulla strada.
La coscienza della persona religiosa si sente legittimata a non intervenire e il sistema socio-politico e religioso, di cui fa parte, la libera da ogni senso di colpa, con una divisione di ruoli e con una serie di motivazioni che lasciano tutto nella sua tragica disumanità. La coscienza religiosa rischia di non rispondere più in prima persona, ma è come schizofrenica, decentrata verso altri che devono intervenire, forse Dio stesso… (ma a questo punto, forse, sarebbe meglio non credere in Dio e quindi, senza alibi, sentirsi, in qualche modo, costretti a giocarsi totalmente per tentare di cambiare qualcosa…).
Quasi trent’anni fa J.B.Metz invitava ad andare «al di là della religione borghese», cioè a superare una vita cristiana che permette la coesistenza di un complesso religioso e teologico molto articolato con la partecipazione a sistemi che provocano morte, ingiustizia e oppressione su scala planetaria. La coscienza della persona credente si atrofizza, appiattita sul pensiero comune, espressione di una struttura complessiva che gode dell’avallo dell’istituzione religiosa. Nel Nord del mondo, in genere, religiosità significa cristianesimo, in Italia, in particolare cattolicesimo. Una religiosità simile, compromessa con i poteri politici ed economici e indifferente al dolore incontrato sulla strada, è irriconoscibile, ormai altra cosa rispetto alla tenerezza e all’umanità palpitanti dell’uomo di Nazareth.