L’Europa muore o rinasce a Sarajevo

di Heymat

La Bosnia non cambia. Alle elezioni politiche di ottobre ha votato il 54% degli aventi diritto, record negativo. E hanno vinto ancora una volta i partiti legati ai tre gruppi etnici che nell’architettura costituzionale postbellica, creata a Dayton (Ohio) nel 1995, si spartiscono la presidenza del piccolo Paese. Nell’anno della primavera bosniaca, delle rivolte contro il sistema etno-politicoaffaristico, delle assemblee spontanee e dei forum civici, si poteva sperare qualcosa di più. Ma quando senti che dopo le alluvioni di maggio il console giapponese a Sarajevo dichiara di non poter donare i 5 milioni di euro di aiuti promessi a causa delle autorità locali che non firmano i permessi necessari, forse ti passa anche la voglia.

I gruppi etnici dominanti

Non vado a Sarajevo da quattro anni. Anche allora c’erano le elezioni. Anche allora il partito interetnico Naša stranka, fondato nel 2008 dal regista premio Oscar Danis Tanović (nel 2002 per No Man’s Land) insieme ad altri intellettuali, aveva raggranellato poche preferenze. Anche allora Fahrudin Radončić, il «Berlusconi bosniaco», che oltre a pubblicare un quotidiano e svariate riviste è sceso in politica – ed è stato ministro dell’interno nell’ultimo governo – si piazzava alle spalle di Bakir Izetbegović nella corsa alla sedia bosgnacca (musulmana) della tripartita presidenza bosniaca. Anche allora si discuteva, ma senza fare nulla, della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che contestava il dettato costituzionale secondo il quale solo cittadini appartenenti ai gruppi etnici dominanti di bosgnacchi, croati e serbi possono essere eletti alla presidenza, escludendo di fatto i cittadini di etnia diversa, ebrei o rom, ad esempio, come i signori Dervo Sejdić e Jakob Finci che avevano presentato ricorso. Le uniche grandi novità recenti sono: il censimento del 2013, il primo dopo quello del 1991 fatto ai tempi della Jugoslavia. Si tratta di un conteggio pericoloso, perché va a tracciare i confini territoriali delle diverse comunità etniche, cioè nuovi motivi di contesa, nuove recriminazioni su quella che – di fatto – è stata una pulizia etnica. Così, per non rischiare sgradevoli verità, si è deciso che risultati i ufficiali usciranno nel 2016.

Uno sguardo sulla città

Quattro anni fa mi piaceva fermarmi al quinto piano dell’allora nuovo BBi Centar di Sarajevo: vedevo la sede del gruppo editoriale di Radončić, la Avaz Twist Tower, luccicante nella sua superficie di specchi, la più alta del Paese, costruita nel 2009. Sotto, la forma della capitale bosniaca. I minareti dappertutto; il profilo della biblioteca nazionale, oggi ricostruita (anche se ha riaperto non come biblioteca ma come sede di rappresentanza del comune); i palazzi asburgici che coprivano le case di legno della Baščaršija, la città vecchia, ottomana ancora oggi; il palazzo in vetro e cemento del parlamento, rimesso a nuovo nel 2007 da scheletro carbonizzato qual era.

A oltre vent’anni dalla disgregazione della Jugoslavia, che nel 1991 intaccò Slovenia e Croazia e nel 1992 deflagrò in Bosnia Erzegovina, Sarajevo organizza ancora un War Tour attraverso i segni della guerra: il tunnel che la collegava all’aeroporto durante l’assedio, oggi museo, il mercato di Merkale in ricordo delle 105 vittime, le buche delle granate riempite di cemento rosso, finché il colore tiene. Nelle edicole della città fa bella mostra di sé il poster della mappa del fronte.

Oggi il più grande centro commerciale del Paese, il Bbi Center di Sarajevo, aperto nel 2009, vende vestiti Oviesse e scarpe Timberland, ma né alcool né maiale. Fuori, nella piazza che affaccia sulla via Maresciallo Tito, tra la Bosnia Bank International, che ha cofinanziato il centro, e il momumento dedicato ai bambini di Sarajevo morti durante la guerra, passano donne con velo e carrozzina, qualcuna porta il niqaïb, il manto integrale che lascia scoperti soltanto gli occhi. Il centro commerciale è costato 35 milioni di euro, tutti sborsati dalla Bbi Real Estate, una societààfondata dall’Islamic Development Bank, l’Abu Dhabi Islamic Bank, la Dubai Islamic Bank: gli stessi azionisti della Bosnia Bank International, la prima banca islamica d’Europa attiva dal 2000. All’interno del Bbi Center c’è uno spazio per la preghiera, dove i clienti musulmani possono adempiere ai propri doveri quotidiani.

Gli investimenti arabi in Bosnia, con Emirati e Arabia Saudita in prima fila, sono arrivati con la guerra del 1992-1995, insieme a mujahidin e wahabiti. Nell’antica madrasa davanti alla moschea di Gazi Husrev-beg, oggi trasformata in mercatino di libri e oggettistica islamica, vocabolari bosniaco-arabo e bosniaco-turco fanno bella mostra.

Mohamed si occupa della sicurezza della moschea considerata il maggiore centro musulmano della Bosnia, racconta: «Gazi Husrev-beg, di padre bosniaco e madre turca, la fece innalzare qui nel 1531, è una moschea di tipo turco: con un piccolo spazio per le donne a lato. Nel 1534 Gazi costruì anche l’acquedotto, nel 1539 le toilette pubbliche per tutti. L’Islam di Bosnia è secolarizzato: nel Corano non c’è scritto di saltare il lavoro il venerdì per la preghiera, né di prendere quattro mogli, né di portare il velo. L’ispirazione è la Turchia. Non abbiamo niente a che fare con i wahabiti, il gruppo religioso che si è stabilito qui dopo la guerra e che ha costruito una grande moschea, con aria condizionata e bellissime toilette. Ma solo per i musulmani». I wahabiti, caratterizzati da un lettura fondamentalista dell’Islam, sono arrivati con i mujahidin, i combattenti di Allah, negli anni ’90: «Durante la guerra promettevano alle famiglie bosniache 150 euro al mese per convertirsi – continua Mohamed – altri 100 per far mettere il velo alle donne. Tra il 1996 e il 1997 la comunità crebbe fino a raggiungere le 50mila persone. Oggi sono circa un decimo».

«Prima della guerra non si vedevano in giro donne con il niqaïb – racconta Edina – ora invece è diventato normale». E pensare che all’indomani dell’11 settembre 2001 a Sarajevo si poteva comprare una maglietta con la scritta «I’m muslim, don’t panic» (sono musulmano, niente panico), a riprova della tradizionale secolarizzazione e dello spirito icastico degli islamici di Bosnia, reduci da quasi mezzo secolo di ateismo sotto la Jugoslavia di Tito.

Disoccupazione e blocco clientelare

Pedja Kojović, mezzo serbo, poeta nato a Sarajevo, ex giornalista Reuters, cofondatore con Danis Tanović e il regista teatrale Dino Mustafić del partito interetnico Naša stranka, ricorda: «Giocavamo sempre a calcio con i ragazzi del quartiere, nel pomeriggio. Alcuni erano musulmani. Durante il Ramadan si spostava l’appuntamento: ci si trovava a giocare dopo il tramonto del sole. Tutto qua». La guerra distrusse abitudini e rispetto. Pedja stava in America, a Washington, faceva il reporter. Ha mollato tutto per fondare un gruppo politico nuovo, giovane. «Il vero problema di questo Paese – spiega – è l’economia. Qualche anno fa Ikea venne per aprire uno stabilimento qui in Bosnia. Abbiamo legno e acqua a volontà. Era perfetto. L’azienda cominciò a prendere contatto con i tre diversi cantoni dai quali doveva avere l’autorizzazione a procedere. Ognuno metteva sul piatto esigenze contrapposte: non riuscivano ad accordarsi. Risultato? Ikea se ne andò. Ha aperto un enorme negozio quest’anno in Croazia e l’anno prossimo arriverà in Serbia. Stesso meccanismo per lo sfruttamento dell’energia idroelettrica, una delle grandi risorse della verde Bosnia: ogni gruppo politico, cioè etnico, è legato a determinate aziende e a determinati interessi. E tutto rimane fermo. Abbiamo buttato 14 miliardi di dollari americani arrivati qui dopo la guerra».

Oggi la disoccupazione galoppa attorno al 44%, gli stipendi medi sono sui 700 euro mensili e il Pil aumenta dello 0,8% annuo, ben lungi dai tassi di crescita dei cosiddetti Paesi emergenti. Osserva ancora Kojović: «La prima «iranizzazione» della Bosnia è iniziata durante la guerra: con l’embargo occidentale le armi venivano dall’Iran. Eppure fallì, i wahabiti sono oggi un piccolo gruppo. Ma stanno ricominciando a farsi sotto. Dove vanno tutti i disoccupati che abbiamo? All’inizio della Ferhadija c’è il Centro culturale iraniano. Entri e hai a disposizione libri, cd, dvd, lezioni di lingua gratuite. È fantastico. Mi piacerebbe che dall’altra parte della strada ci fosse un internet point in cui i ragazzi potessero navigare per pochi spiccioli. Ma non c’è. Così se da Iran o Arabia Saudita arriva qualcuno che promette 100-200 euro al mese in cambio di fedeltà, la gente lo segue».

Quanto è reale il pericolo di un fondamentalismo religioso di stampo islamico? «Finché i negozi di Baščaršija continueranno a vendere film porno – sorride Kojović – non c’è pericolo che la Bosnia diventi estremista».