Lettera a un’allieva sulla scuola
A cosa serve il greco
F., se stai bene è cosa buona, così sto bene anch’io.
Non ti sei dileguata, secondo il costume dei disertori, non appena uscita dalla porta del colloquio, a conclusione del tuo esame di stato; non solo, ma mi hai anche scritto una lettera, di cui ti ringrazio senza retorica. In essa, grazie al fatto incontestabile di essere tu finalmente, dopo cinque anni, fuori dal liceo, con trasparente libertà e altrettanto percepibile rispetto esprimi le tue valutazioni sull’esperienza compiuta, in primo luogo, e in secondo luogo mi chiedi un parere sulla scelta universitaria.
Inattuale
Adottando pure io i tuoi assi cartesiani (libertà e rispetto), provo a rispondere al bilancio da te tracciato. Tu lamenti, in sostanza, l’inattualità della scuola: se codesta accusa venisse portata da una persona disimpegnata e lavativa, non me ne curerei; viceversa, la fedeltà quotidiana da te offerta allo studio, mai venuta meno in tutto il quinquennio, pretende giusto responso. Il mondo contemporaneo – si afferma – è globalizzato; sono stati abbattuti tutti gli steccati ereditati dal secolo (e millennio) scorso; i mezzi di comunicazione hanno annullato ogni distanza, introducendo – si sostiene – una planetaria uguaglianza fra gli abitanti del pianeta Terra; a casa tua, nella tua stanza, sei collegato con l’universo intero, quindi, che bisogno c’è della scuola delle tabelline e delle declinazioni? Paradossalmente, cara F., è una fortuna che la scuola sia inattuale, basta capirci bene, condividendo il significato delle parole che adoperiamo. Inattuale è ciò che resiste alle mode del momento, all’usa e getta della persuasione pubblicitaria, alla corsa esasperata ad acquistare la novità, per poi cestinarla in quanto obsoleta perché superata dalla novità successiva; inattuale è ciò che richiede fatica e applicazione giorno per giorno, dettate dall’umiltà che viene ispirata dalla coscienza della propria ignoranza. Inattuale è non chiedersi, in prima istanza, a che serve questo, a che serve quello: tu, che prima di iscriverti in quarta ginnasio hai partecipato agli incontri propedeutici organizzati dal liceo, ti ricordi sicuramente della mia provocazione «a che serve il greco?» «a niente» e «a che serve il latino?» «a niente» (la doppia brutale risposta negativa la si comprendeàsolo se si ha nozione della semantica del verbo «servire», che vale «essere schiavo di»).
Comprendere, condividere il significato delle parole
Afferriamo il filo che può portarci a riva, laddove sottolineo la necessità imprescindibile del possesso della prima competenza che la scuola deve fornire e che ogni cittadino è tenuto a possedere e a dimostrare per tutta la vita: capire, condividendo, il significato delle parole. Qualche esempio, se permetti, non destinato a te (ascoltatrice dalle orecchie monde), ma agli altri ventiquattro lettori della presente lettera aperta. Si predica da qualsivoglia pulpito e tribuna l’educazione «interculturale», ma che significa? Ammettere alle trasmissioni televisive persone di altra pelle, per dimostrarsi moderni? A proposito, ricordi che «moderno» deriva dall’avverbio latino «modo», che significa «adesso e non dopo, in questo momento e non nel futuro, oggi e non domani, ecc.», e che quindi segnala la provvisorietà vuota di ogni concetto che sia determinato da tale aggettivo?
Intercultura è un atteggiamento morale, una modalità di comportamento molto semplice ma altrettanto impegnativa, che richiede rispetto per la persona, disponibilità a valorizzare ogni apporto di sapere attraverso curiosità e passione di conoscenza. Strettamente intrecciato con codesta persuasione risulta la nozione di cittadinanza – parola abusata quant’altra mai, specialmente nel nostro tempo così afflitto da lacerazioni profonde nei rapporti umani. «Cittadinanza» è vocabolo astratto derivato da «città», a sua volta coniato sul latino «civitas», la cui base generativa è «civis», il cittadino della «res publica Romanorum»: nozioni fondanti, queste, da confrontare diacronicamente con la «polis» e la «politeia» dell’esperienza greca, all’indietro, e in avanti con le mille esperienze storiche geograficamente controllate. Tutto questo per il passato, la cui conoscenza deve essere garantita nella scuola pubblica: per il presente, non occorrono molti sforzi. Ricorso a internet a parte (benedetta tecnologia, quando sapientemente usata!), è sufficiente aprirsi al contributo dei compagni di classe, o degli amici del gruppo o della comunità da te frequentata, i quali provengano da altre realtà sociali, economiche, culturali, e, senza tanti cappelli introduttivi, mettersi gomito a gomito a condividere vicendevolmente le rispettive curiosità intellettuali.
Politica, parola usata e abusata
Sempre rimanendo nel contesto delle parole usate (e abusate), che significa il termine «politica»? Invece di rimandare a una scheda bibliografica di trenta pagine da cestinarsi appena il professore gira lo sguardo, ricorda insieme con me – sempre a beneficio dei nostri lettori, che saranno nel mentre anche diminuiti, forse … – l’aneddoto riportato in una favola di Esopo:
L’oratore e uomo politico Demade, parlando un giorno nell’assemblea degli Ateniesi, essendosi accorto che costoro non gli offrivano un minimo di attenzione, chiese loro licenza di raccontare una favola di Esopo. Approvata la proposta all’unanimità, egli cominciò dicendo: «La dea Demetra,una rondine e una biscia facevano un viaggio insieme: giunto il gruppo presso un fiume, la rondine si alzò in volo, e dal canto suo la biscia si immerse nell’acqua del fiume». Pronunciate queste parole, egli tacque, facendo vista di andarsene. Ma l’uditorio intero a una voce chiese: «E la dea Demetra che fece, allora?» e a questo punto Demade rispose: «La dea Demetra è profondamente adirata con voi, poiché siete sordi alle cose della città preferendo correre dietro alla favole di Esopo».
Già in traduzione italiana il significato della parabola è chiarissimo, laddove si rimarca l’abissoàfra il sapere indispensabile per una vita attiva e il superfluo; ma potendo leggere il tutto in lingua originale (basta volerlo, iscrivendosi al liceo classico), si spalancano portoni immensi di conoscenza, a cominciare dalle «cose della città», formula che in greco suona «ta tes poleos pragmata», e cioè: a. un neutro plurale (un neutro? Che roba è? Prova a studiare il greco, il latino, il tedesco, ma anche l’inglese antico, e, se hai passione per le lingue, pure il sanscrito) del sostantivo «pragma»; b. il genitivo singolare di «polis» – l’uno e l’altro elementi del lessico intellettuale europeo di base.
Mi accorgo ora (quando è troppo tardi, ormai) di non aver fatto altro che una ulteriore lezione. Ma cosa altro può fornire a una comunità un insegnante? Sottoponiamo, e per l’ultima volta, anche codesto vocabolo alla acribia semantica. «Insegnante» è il participio presente (sostantivato) del verbo «insegnare», dal latino (ancora!) «insignare», che vale «mettere un segno (signum) su». Ruolo quanto mai delicato, bisognoso quanto mai di carisma, prima che di studi.
E questo lo scrivo per te, che desideri diventare un’insegnante.
Post scriptum: Ma allora il greco e il latino davvero non servono a niente?