L’esercizio dell’ambiguità nell’accoglienza
L’accoglienza attraverso l’istituto dell’adozione o dell’affido di bambini privi di famiglia accudente è un tema che ha molti presupposti psicologici connessi con il vivere ritenuto virtuoso (dalla vocazione all’altruismo, all’impegno sociale o politico, ecc.). Tutte le famiglie possono accogliere un bambino, adottandolo o prendendolo in affido temporaneo, in attesa che la sua famiglia sia in grado di essere funzionale? La risposta è «sì» in teoria e «dipende» nella pratica. Potenzialmente ogni famiglia può accogliere, a patto che abbia fatto un processo di interiore analisi sulle motivazioni che la muovono, sul bilancio del proprio altruismo e del proprio egoismo, sulla reale disponibilità di tempo che bisogna dedicare al bambino stesso. Come si può capire, è un agire che contiene una forte dose di ambigua incertezza tra utopia e reale capacità della quale bisogna essere consapevoli.
Sul piano psicologico l’accogliere racchiude nelle motivazioni più significati personali: il dare una famiglia, che è la componente altruistica, l’avere un figlio che è la componente egoistica, il divenire genitore che coinvolge la sfera dell’essere e del divenire. Sono tutti aspetti che devono essere presenti e ben mescolati, che rappresentano un dato di fatto e racchiudono un’ambiguità interiore del cui governo dobbiamo rendere conto. La componente egoistica non deve di per sé essere considerata solo negativamente, poiché in misura ridotta costituisce il salvagente interiore necessario per dare sostegno alle nostre crisi identitarie e per evitare il burn out.
L’accoglienza è sempre un bene certo?
La famiglia che si apre all’accoglienza è una famiglia definita omeostatica, ovvero ha raggiunto un suo equilibrio e sue regole interne. Questa sicurezza porta con sé anche elementi di forza e di debolezza, costituiti dalla tendenza a ridurre gli elementi che determinano cambiamento (la sua forza è la stabilità, la sua debolezza la rigidità). La famiglia che ha già compiuto un cammino di accoglienza e che si è temprata a questi eventi modificatori è classicamente una famiglia che riesce a configurare in modi diversi le relazioni tra i suoi membri e quindi è soggetta a un’alta capacità di evolversi, per questo può essere definita famiglia che ha in atto un continuo processo di formazione (la sua forza è la flessibilità, la sua debolezza l’incertezza e l’ambiguità). La famiglia che si appresta a divenire accogliente deve transitare sul ponte, tra una riva e l’altra. Il passaggio è delicato e il ponte per nulla solido, soggetto com’è a tutte le interazioni tra interiorità ed esteriorità, tra oggettività e soggettività, tra realtà e sogno. La famiglia accogliente è sempre a rischio di instabilità dovendo operare con regole condivise e con flessibilità individuale, per cui presenta tutte le ambivalenze che sono necessarie per compiere un transito vissuto.
Due modelli per esemplificare
Consideriamo due situazioni tra loro diametralmente opposte: uno di famiglia accogliente a struttura rigida, incline a un agire solidamente precostituito e una seconda famiglia che gioca sull’improvvisazione emotiva determinando una forte flessibilità nell’agire.
1.àLa famiglia accogliente, sacrificante, è quella che «si sacrifica» accogliendo un bambino. Di solito sono famiglie dominate da un forte (e insano) percorso religioso o da un forte (e insano) senso del dovere laico. Nell’ambito del quotidiano familiare il sacrificio è ritenuto il comportamento più adatto per farsi accettare dall’altro e per mantenere stabile una relazione. Il risultato è la mancata soddisfazione dei propri desideri e la continua condiscendenza ai bisogni e ai desideri degli altri (es. la donna verso marito e figli). Questo determina una relazione complementare con un’apparente posizione di inferiorità della persona che si sacrifica (altruista) e una apparente posizione di superiorità dell’altro (egoista) che gode dei benefici derivanti dal sacrificio altrui. In queste famiglie il «dovere» è filosofia di vita. La peggior cosa che una madre accogliente possa dire al figlio accolto è «tu non comprendi il mio sacrificio per te», perché il figlio non deve nulla alla madre (non è stato lui a cercarla): semmai è la madre che deve qualcosa al figlio (sempre) perché le ha colmato un vuoto affettivo o ha colmato un suo desiderio di essere.
Chiaramente l’atmosfera che si respira in queste famiglie non è sempre allegra, perché spesso carica di ansia e di preoccupazione, per cui soprattutto l’adolescente accolto tende a sfuggirla, coltivando amicizie e altre attività esterne. In questi casi si rivela una situazione in cui il gioco dell’ambiguità non trova spazio e il modello proposto rimane monolitico: con due genitori accoglienti perfetti, che tutti citano come esempio, che tutti hanno in grande considerazione. Questa situazione finisce paradossalmente per crescere un figlio deviante, poiché nella fase della costruzione della personalità sente il bisogno di costruirsi in modo differente da tanta perfezione, sente che non è perfetto e loro sono irraggiungibili e di conseguenza o si adegua, divenendo un copia del genitore per mancanza di dimensione propria autonoma, o spacca tutta la gabbia familiare perfetta che non gli permette di provare sbagliando. Lo spazio di ambiguità nel proporre all’accolto modelli familiari possibili deve contenere un alto grado di flessibilità e di possibilità di espressione autonoma. I figli sono belli anche nei loro errori e devono sapere che qualsiasi cosa facciano, anche se fatta con la nostra disapprovazione, possono farla e rimanere nel nostro cuore.
2.àLa famiglia flessibile è caratterizzata da interazioni tra adulti e giovani in continuo cambiamento, ovvero i comportamenti reciproci, invece di essere coerenti rispetto a un modello, sono basati su un’ambivalenza costante. In questo caso il rischio che si corre è che la flessibilità divenga di fatto ambiguità sui temi di fondo, creando confusione di valori nel minore accolto. L’ambiguità comportamentale a cui si fa riferimento è quella di stile mentale, per cui le decisioni in famiglia si prendono in una discussione comune, in cui ci si confronta e ci si scontra, per poi giungere a una decisione condivisa. Questa modalità può essere un gioco sociale costruttivo per gli adulti della famiglia, ma per un bambino è una procedura che lo destabilizza perché, non comprendendo l’argomento di discussione, si trova coinvolto empaticamente a dover parteggiare per l’uno o per l’altro, con forte destabilizzazione.
In questi casi il genitore ad esempio può alternare posizioni iperprotettive verso il figlio, seguite da atteggiamenti permissivi, per poi assumere il ruolo di vittima. In questo comportamento l’ambiguità di fondo determina una assenza di leadership di ruolo e trasmette confusa insicurezza nei maschi e illogicità emotiva nelle femmine. Nella vita quotidiana i genitori possono trasmettere ai figli messaggi contraddittori e i figli a loro volta ora saranno ubbidienti e ora ribelli, ora responsabili e ora irresponsabili. È la condizione che si determina quando figli e genitori manifestano una marcata incapacità a mantenere una posizione definita e si sottopongono a continue revisioni critiche, fino al punto di divenire loro stessi naufraghi nel mare dei loro dubbi. Anche in questo caso la buona predisposizione umana (la revisione interiore) quando è esasperata diviene fatto negativo.
L’ambiguità nell’accezione consueta viene vista come un elemento sempre negativo, ma non è sempre così. Nell’arte è un elemento di valore, nella tecnologia è un elemento di duttilità, nel vivere è un elemento di consapevolezza. Nella morale e nell’etica, invece, è sempre indicazione di malafede o di opportunistico esercizio del dubbio. Il problema è che umanamente trasferiamo agli altri, e soprattutto verso i figli accolti, che solleticano il nostro narcisismo, ora la nostra rigidità etica o religiosa (che è un fatto personale), ora il nostro agire duttile, opportunista, spesso svincolato dal senso etico o morale. Il difficile è compensare questo agire, soprattutto verso un figlio accolto, che noi guardiamo in termini «speciali» e lui ci guarda in termini «speciali». L’accoglienza si gioca sul ponte fragile del flessibile agire tacitamente condiviso e della solida consapevolezza.
Alessandro Bruni
docente universitario
http://crescerefiglialtrui.typepad.com