Le persone non sono quello che fanno

di Rigoldi Gino

Spesso, sui giornali, specialmente quando accadono fatti delittuosi particolarmente gravi, alcune persone vengono descritte come fossero dei mostri.

In effetti, quando si identificano le persone con i reati che commettono ma anche, più in generale, con alcuni dei loro comportamenti, il giudizio si orienta in senso negativo, pure molto negativo.

Anche quando si tratta semplicemente della vicina di casa che sporca o di un gruppo di ragazzi che fanno rumore, è più facile ascoltare giudizi negativi che non comprensione, tolleranza, voglia di favorire il cambiamento.

Qui sta l’errore: le persone non sono quello che fanno.

Gli atti che compiono quasi sempre sono di loro responsabilità, sono una parte del loro carattere, della loro storia, talora delle vicende del passato ma è superficiale, inesatto, spesso ingiusto identificare la persona con il nome di un’azione.

In carcere da circa trentotto anni, ho visto persone, non solo minori, uomini e donne che hanno compiuto ogni tipo di reato: dal tentato furto all’omicidio, allo stupro pedofilo, allo spaccio di droga.

Non ho mai avuto dubbio che il furto, lo spaccio e ogni forma di violenza siano un male. So bene che a causa di un reato spesso soffrono, sono umiliate, piangono le vittime e le vittime meritano rispetto, ascolto e quando possibile risarcimento, o almeno richiesta di perdono.

Per questo noi pensiamo che nel Carcere Minorile «C. Beccaria», non si costruisce progetto per il fuori se non c’è una comprensione e una presa di responsabilità riguardo al reato e il rispetto della dignità e dei diritti di ogni essere umano.

Per una legge di misericordia

Quando ero ragazzo, nato e vissuto in una casa di ringhiera a Milano, di fronte a comportamenti non proprio criminali ma certamente anomali come la prostituzione, il contrabbando, furtarelli di sopravvivenza, l’essere iscritti al partito comunista, mia madre, mentre affermava la negatività dei comportamenti mi ammoniva sempre: «Tu però devi volergli bene, perché è un uomo, una donna «di cuore»».

In effetti, per cultura ma anche per competenza e serietà, io mi astengo dal giudicare le persone perché c’è chi giudicherà e sarà il giudice per la eventuale colpevolezza penale e Dio per la parte morale.

Il mio compito, come quello di tutti gli operatori del carcere minorile, dagli agenti di polizia agli educatori, è quello di far capire il male fatto, di identificare la parte buona, di energia, di voglia di cambiamento, il «cuore» appunto e di costruire un percorso di reinserimento sociale che sia buono e bello per i giovani ma anche per la società.

Se per misericordia si intendono le azioni volte al cambiamento e gli strumenti per ricominciare una vita onesta e positiva, la Costituzione italiana è una legge di misericordia perché orienta l’espiazione della pena verso la novità di vita.

Se misericordia è un sentimento di rinnovata alleanza con una persona che ha sbagliato ed è l’offerta degli strumenti per ricominciare, questa è l’attività che insieme con molte e molti io faccio con convinzione e con soddisfazione, da trentotto anni.

Come cristiano io sono molto fortunato perché quando il vangelo di Matteo vuole identificare la qualità principale di Dio e quindi la qualità che gli uomini devono coltivare soprattutto dice: «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro che è nei cieli».

La mia fortuna spesso è anche la mia tristezza quando guardo i comportamenti di gran parte della gente, comprese moltissime persone che frequentano la chiesa.

Educare alla relazione

Il giudizio è immediato, la condanna altrettanto veloce e imperdonabile.

Il giudizio negativo, una condanna senza appello è quello che sento ripetere: «Buttare via la chiave». Troppo pochi nove anni per Omar, il complice di Erika De Nardo. Fa niente se chi ha subito il dolore come il padre e la nonna di Erika hanno perdonato e sono solidali. Il popolo vuole sangue. «Io sono cattolica, ma non perdono». Quando io dico che l’essere cristiani e non perdonare non stanno insieme mi sfidano a scomunicarli, ma non c’è bisogno del vecchio strumento della scomunica, si mettono fuori da soli.

La misericordia, il perdono sono diventati debolezza, stupidità oppure forma estrema di eroismo mentre la misericordia è una virtù laica e sociale e una principale virtù cristiana visto che Dio si definisce come «il misericordioso».

Esiste una chiave per riavviare capacità di misericordia.

Per educare alla misericordia, occorre educare alla relazione che è la competenza dello stare con gli altri in maniera onesta e positiva, luogo centrale nell’educazione e premessa necessaria della misericordia.

Stupefacente osservare che mentre in ogni pagina della letteratura pedagogica ma, ancora prima, in ogni pagina del Vangelo si afferma la necessità della relazione onesta e costruttiva, per il benessere, per la fedeltà a Dio, nella pratica educativa quotidiana l’educazione alla relazione sia ipotesi secondaria.

L’amore verso gli altri e ogni forma di amore, premessa di amicizia, di famiglia, di società non può che passare attraverso il guardarsi, l’ascoltarsi, il parlare, appunto attraverso la relazione.

Abbiamo molto da lavorare noi che crediamo che la relazione sia lo strumento per crescere e per avere una vita bella e buona e per imparare la misericordia.

Gino Rigoldi
fondatore di «comunità nuova»,
cappellano dell’istituto penale per minorenni
«c. Beccaria», Milano