Le città postmoderne, dopo-moderne, contemporanee… ancora senza nome

di Scandurra Enzo

Le città del nostro secolo sono profondamente diverse da quelle del secolo precedente. Ancora oggi non riusciamo a dare loro un nome, come è accaduto per le seconde, chiamate moderne. In generale, esse vengono indicate col nome di post-moderne o dopo-moderne o contemporanee, ma così chiamandole evidenziamo proprio la nostra incapacità a rappresentarne le differenze rispetto alle prime. Quando parlo di città non faccio riferimento esclusivamente agli aspetti fisici, architettonici o urbanistici; se così fosse, le differenze tra quelle del secolo scorso e le attuali non sarebbero rilevanti. Io mi riferirò piuttosto all’intreccio tra luoghi fisici, vita collettiva e individuale delle persone e a come questo complesso rapporto si è modificato così rapidamente nel corso degli ultimi trent’anni.

È del tutto ovvio che tali cambiamenti sono conseguenti alla modificazione della struttura della produzione, della struttura sociale e dei modelli antropologici. A loro volta i cambiamenti retroagiscono su queste strutture e su questi modelli modificandoli. Non ci troviamo di fronte alla fine della storia, come alcuni sostengono, ma stiamo assistendo alla nascita di una nuova narrazione, completamente diversa da quella passata.

Mutazioni rapide, crolli

Il passaggio dal moderno a ciò che non ha ancora nome è stato rapidissimo e tale da non riuscire ancora a essere afferrato da una teoria interpretativa esauriente. Oltre che rapida, la trasformazione, una vera e propria mutazione, ha riguardato tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva: il crollo del lavoro come perno d’identità sociale, quello dei paesi ex comunisti, lo sfarinamento dello Stato-nazione, il grande mutamento del capitalismo (globalizzazione, finanziarizzazione), la nuova geopolitica del pianeta, la disfatta dell’egualitarismo a favore della libertà del singolo, la scomparsa del concetto di bene comune, la trasformazione dei concetti di appartenenza e d’identità, l’aggressione senza precedenti agli ecosistemi di produzione del vivente, il controllo della vita, la manipolazione genetica e, per ciò che attiene particolarmente la città, l’ondata di flussi migratori di abitanti dei paesi del sud del mondo, che scappano per fame o per persecuzione politica. In questo breve scritto mi limiterò a segnalare a come sarebbe importante, come soluzione non contingente di quest’ultimo aspetto, se gli amministratori e i sindaci delle città concorressero all’elaborazione (culturale e politica) di un vero e forte progetto di cittadinanza.

Sorgono mode effimere e novismo…

Molte amministratori e molti sindaci hanno creduto di poter modernizzare o innovare le grandi città inseguendo mode effimere, perseguendo la ricerca del novismo. Grandi eventi, notti bianche, festival di cinema. La città è diventata una gigantesca vetrina, una merce al pari di tante altre merci, da esporre come primizia nazionale nel mercato mediatico ed economico globale. Queste manifestazioni culturali e queste celebrazioni di eventi eccezionali hanno messo in ombra, hanno oscurato e rimosso il vero statuto originario delle città: il concetto di accoglienza, quello di cittadinanza reale che può esistere solo all’interno di una condizione reale di eguaglianza.

Giacomo Marramao ci ricorda (La passione del presente, Bollati Boringhieri, 2008) come le città d’Europa sono state luoghi nei quali le differenze specifiche non hanno mai dato vita a rigide politiche dell’identità. A partire dall’epoca medievale quando l’aria della città rendeva liberi, le realtà comunali sono sempre state luoghi d’incrocio tra identità diverse. Oggi, quasi al contrario di quell’epoca definita oscura, nelle nostre città prevale, abilmente manipolato dai media, la paura del diverso. La sindrome della paura in realtà è piuttosto associabile alla precarietà sociale ed economica, alla mancanza di un orizzonte di speranza, alla rottura della solidarietà, al dissolvimento del welfare urbano. Essa però è abilmente incanalata verso il diverso-da-noi, verso il barbaro, il terrorista dietro la porta di casa o all’uscita della scuola. E la sindrome della paura genera le odiose misure razziali contro i lavavetri, contro i Rom accusati di ogni nefandezza, contro gli extraeuropei che ci «rubano il lavoro».

… Invece di un progetto di cittadinanza

A questa deriva sociale occorrerebbe contrapporre un progetto sociale di eguaglianza e di cittadinanza. Un concetto inclusivo contro ogni concetto esclusivo. La rimozione di questa questione a favore di facili successi elettorali ha portato alla condizione di produrre cittadini di serie A e cittadini di serie B, per non parlare poi degli invisibili, di tutti coloro cioè che, da esclusi e marginali, sono privi di voce e di rappresentanza (oltre che di rappresentazione).

La ricerca del «nuovo» a tutti i costi – confusa con una presunta modernizzazione – ha reso subalterne le città nei confronti dell’economia mondiale, dei poteri forti. Bisognerebbe ricordare che il nuovo può essere positivo solo a patto di poterlo governare, piegarlo alle esigenze dei più deboli; esso va sempre misurato sulla nostra condizione presente. Senza eguaglianza – ci ha recentemente ricordato don Mazzi (Il manifesto del 24 dicembre 2008, L’altra faccia del natale) – i diritti cambiano natura: per coloro che stanno in alto diventano privilegi, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità. Senza eguaglianza, ciò che è giustizia per i potenti è ingiustizia per i senza potere.

I diritti universali, i diritti dell’Uomo, acquistano senso solo all’interno di una comunità politica e sociale; di per sé sono astratti. Il concetto di cittadinanza è un concetto nobile perché rende concreti i diritti in quanto attribuibili a un soggetto specifico e non a un astratto individuo. Elaborare un vero progetto di cittadinanza dovrebbe essere il compito principale degli amministratori-educatori: la creazione della civitas. Il concetto di cittadinanza è un concetto nobile in quanto mira direttamente al soggetto all’interno di una reale comunità politica. Si ricordi la definizione di Aristotele: è cittadino colui che partecipa alle cariche e al governo della città perché ogni cittadino sa esercitare il ruolo politico. È dalla comunità che l’individuo trae sicurezza, privilegi, identità: la sua stessa libertà presuppone la libertà della città.

Ri-conoscimento e identità

Al concetto di cittadinanza è associato quel particolare aspetto sociale che ci restituisce identità: il ri-conoscimento. Come ci ha insegnato Pietro Barcellona, è solo attraverso lo sguardo dell’altro (che ci-riconosce) che acquistiamo identità e autonomia; all’inizio della propria esistenza esso è lo sguardo della madre premurosa e amorosa. Un individuo esiste socialmente in quanto riconosce l’altro e ne è riconosciuto.

Riconoscere l’altro significa renderlo socialmente rilevante e visibile: significa attribuirgli un ruolo, un’identità e chiedere, in cambio, un suo dovere nei riguardi della comunità. È il riconoscimento reciproco che, nell’interazione sociale, costituisce l’altro come persona, lo rende socialmente visibile, lo fa apparire togliendolo dall’anonimato della folla indistinta. Forse è questo il vero concetto di modernità; utilizzare le nostre conoscenze e le nostre esperienze per rendere i cittadini attivi e critici; considerare le diversità un elemento di accrescimento della civitas, sviluppare iniziative di solidarietà. Finisco questo breve articolo che meriterebbe ben più approfondite riflessioni con la frase di Enzo Mazzi: «A chi parla di diritti è giustificata la domanda: da che parte stai, degli inermi o dei potenti?». Non è la stessa cosa.