Lavoratore sì, ma cognitivo
Vi sono pochi temi, come quello del lavoro, gravati da molta retorica e intramontabili ideologie. E che invece richiederebbero un confronto senza pregiudizi verso le realtà, sempre composite e sovente contraddittorie, che oggi ci troviamo di fronte. A partire da una constatazione tanto banale quanto decisiva. Lo sviluppo scientifico e tecnologico consente oggi, e consentirà ancora di più nel futuro, un’enorme produzione di ricchezza con un sempre minore dispendio di lavoro umano. Il che non significa, beninteso, né la fine dello sfruttamento del lavoro né l’accesso generalizzato alla ricchezza prodotta. Ma ci impone comunque di abbandonare quell’idea di «piena occupazione» cui tradizionalmente hanno fatto riferimento le organizzazioni del movimento operaio e le politiche sociali, ossia la diffusione a livello pressoché generale di rapporti salariali a tempo indeterminato, rappresentati nello stato e garantiti da unàwelfare costruito a loro misura.
Paradossalmente si potrebbe sostenere che oggi esista già la «piena occupazione», ma in altra forma: quella che affianca a un’occupazione a tempo indeterminato, costretta ad arretrare sempre di più sul terreno dei diritti e delle retribuzioni pur di potersi conservare, una molteplicità di lavori intermittenti, precari e autonomi, fino ad attività gratuite o semigratuite, non riconosciute nemmeno come «lavoro», ma indispensabili al mantenimento della coesione sociale e dei nostri livelli di vita.
Il fatto che questo mondo del lavoro si presenti disomogeneo, frammentato e difficilmente riconducibile a soluzioni organizzative, non toglie nulla al fatto che esso rappresenti nel suo insieme, e proprio per queste sue caratteristiche, la forza produttiva decisiva della contemporaneità. A partire da questo sfondo converrà allora prendere in esame alcuni passaggi particolarmente significativi.
La macchina linguistica
In primo luogo il terreno, sempre più ampio, conquistato dalla «macchina linguistica» (il computer e le reti interattive) a scapito della «macchina meccanica» (discendente dell’antico telaio a vapore) o il controllo esercitato dalla prima sulla seconda nella robotica.
Questo passaggio ci serve a diradare quella concezione alquanto idealistica del «lavoro cognitivo» come lavoro intellettuale (separato e «privilegiato») e dei beni «immateriali» (conoscenze, sistemi relazionali, linguaggi) come oggetti metafisici o evanescenti che precedono semmai a lunga distanza ogni forma di applicazione. Insomma, quella separazione netta tra «libero pensiero» ed esecuzione obbligata e ripetitiva di una mansione parcellizzata che è stata la regola dominante nell’epoca fordista.
La macchina linguistica esce dalla fabbrica insieme al suo operatore, lo accompagna in una dimensione in cui la produzione per altri e la riproduzione di sé e della propria soggettività si intrecciano e si confondono. Il computer riassume e confonde in sé nella maniera più evidente lo strumento di lavoro, l’ambiente delle relazioni sociali, la fonte delle conoscenze. Identificare e distinguere questi singoli elementi diventa quasi impossibile.
Ma non è la macchina a creare magicamente questa commistione. È una nuova soggettività che si è andata producendo nel tempo, con l’espulsione o la fuga dal lavoro salariato. a determinare la centralità della «macchina linguistica», quella digitale e quella costituita dal nostro mondo relazionale. Ora, se il lavoratore è entrato in possesso del suo mezzo di produzione, quest’ultimo lo sottrae solo in potenza allo sfruttamento e all’espropriazione.
Un tempo, quello antico della bottega artigiana e quello moderno dell’impresa capitalistica, essere padrone dei mezzi di produzione (la fabbrica, il sistema delle macchine, le materie prime) comportava il possesso del prodotto e il controllo sulla sua conversione in valore.
Per il nostro lavoratore cognitivo non è così.
Una nuova subordinazione
La committenza, il controllo dei canali di distribuzione, lo strumentario giuridico dei diritti di proprietà (brevetti, copyright, contratti capestro), il potere finanziario, il credito (e dunque l’indebitamento), non ultima la politica fiscale esercitano un soffocante controllo sul lavoro autonomo e un efficace dispositivo di appropriazione del suo prodotto. Insomma una sorta di subordinazione reale. Questa sì «a tempo indeterminato» ed esclusa da diritti e garanzie.
È chiaro che figure produttive di questa natura, proprio per l’intreccio dei fattori, materiali e
culturali, che le condizionano, delle aspirazioni soggettive che le motivano, non possono affidarsi a una rappresentanza sindacale di tipo classico. La loro situazione le colloca a cavallo tra la dimensione sindacale e quella politica (intesa in tutta l’ampiezza del suo significato). Condizioni di lavoro, condizioni di vita, interessi culturali e peso politico nel processo democratico non possono più essere distinti tra loro.
Per designare questo particolare spazio di azione collettiva o di organizzazione delle lotte sono stati impiegati termini come «coalizione sociale» o «sindacalismo sociale», che se hanno avuto il merito di centrare il problema e cominciare ad affrontare la molteplicità dei percorsi senza pretendere di ricondurli a un unico standard, mostrano non poche difficoltà nel prendere concretamente corpo. Ma resta comunque l’unica strada, non essendo realistico (e nemmeno auspicabile) un ritorno generalizzato al lavoro subordinato.
Le nuove soggettività
La produzione del nostro vivere sociale non è riconducibile al lavoro, misurabile con il tempo del suo svolgimento, come produzione di merci e di servizi. Di qui l’insensatezza di formule come «lavoro di cittadinanza» che pretendono di ricondurre i diritti e le prerogative dei singoli allo svolgimento di un lavoro certificato come tale e considerato, come un tempo, fonte principale di identità e oggetto privilegiato della rappresentanza. Se poi a questo si aggiunge il «reddito di dignità» (espressione vicina a tanta letteratura caritatevole dedita a celebrare la «dignitosa povertà» e la sua silenziosa impotenza) si compone in tutte le sue parti il quadro di indigenza e irrilevanza politica e sociale cui viene condannato il mondo sempre più vasto del lavoro intermittente, nomade e precario.
Quel che converrà invece tenere ben presente è che non sono l’intermittenza del lavoro o la sua informalità, strettamente connesse con il modo di produzione contemporaneo e la sua prevedibile evoluzione, a costituire la «patologia», ma la maniera in cui vengono sfruttate e private di qualsiasi riconoscimento e strumento di difesa.
Le nuove soggettività del lavoro presentano una forza e una debolezza. La forza è quella di una possibile indipendenza, dell’autonomia delle scelte e dei percorsi, la debolezza quella della divisione fomentata da una politica avversa che privilegia la competizione a scapito della cooperazione. Quel che è certo è che fino a quando queste forme di vita e di attività continueranno a essere considerate una deviazione dalla norma, «atipiche», secondarie e politicamente inaffidabili, l’elemento della debolezza resterà prevalente.
Marco Bascetta
giornalista de il Manifesto