L’anno delle riforme costituzionali
Il cammino delle riforme
L’11 gennaio di quest’anno la Camera ha approvato il disegno di legge di riforma costituzionale (ddl cost.) «Renzi-Boschi», già approvato nella stessa formulazione dal Senato il 13 ottobre 2015. Si può dire che, in questo modo, con le approvazioni conformi del medesimo testo da parte delle due camere, si è materializzata la prima fase del procedimento di revisione regolato dall’art. 139 della Costituzione.
Come è noto, tale procedura contempla un’altra approvazione conforme, che dovrà avvenire entro un termine non minore di tre mesi: se quest’ultima approvazione avverrà con la maggioranza assoluta, la legge di revisione verrà pubblicata in Gazzetta Ufficiale e vi saranno, poi, tre mesi di tempo per chiedere l’indizione di un referendum popolare (ciò potranno fare cinquecentomila elettori, cinque consigli regionali o un quinto dei membri di una delle due camere); se, invece, l’approvazione avverrà con una maggioranza particolarmente qualificata (dei due terzi dei membri di ciascuna camera), il referendum non potrà essere indetto e la riforma entrerà in vigore.
Poiché pare che questa seconda ipotesi non si possa realizzare – anzi, sembra proprio che la prima sia di per sé scontata, visto che si sono già attivati i fronti referendari del «Sì» oàdel «No» – risulta quanto mai opportuno cominciare a ragionare sin d’ora sui contenuti della riforma «in cantiere».
Un’avvertenza preliminare è necessaria: il referendum non potrà essere concepito come consultazione parziale; non sarà, cioè, possibile, per i cittadini, votare «Sì» per una parte (o per più parti) della riforma e votare «No» per l’altra (o per le altre). Prendere o lasciare, dunque: sicché l’importanza del farsi complessivamente un’idea è ancor maggiore, tanto più che, per determinarsi su quale decisione assumere nel segreto dell’urna, si sarà naturalmente indotti a bilanciare, ciascuno per suo conto, vizi e virtù del rinnovato testo costituzionale nella sua generalità.
La razionalizzazione dell’organizzazione costituzionale
In primo luogo occorre segnalare che il ddl cost. contiene molte disposizioni che acquisiscono, per così dire, i risultati di interpretazioni o ricostruzioni considerate positivamente, e da molto tempo, da buona parte degli studiosi.
In estrema sintesi, vengono in gioco soprattutto le innovazioni in materia di procedimento legislativo (che tendono a dare ai disegni di legge del Governo, e anche a quelli di iniziativa popolare, «speditezza» e «certezza» maggiori; e che tendono anche a rendere più incisive le prerogative dell’opposizione parlamentare), di decretazione d’urgenza (con chiarimento ancor più espresso dei limiti che il Governo può incontrare laddove decida di ricorrere all’adozione di decreti legge) e di referendum abrogativo (del quale è stata in qualche modo razionalizzata la disciplina del quorum necessario a rendere la consultazione valida).
Va specificato, a onor del vero, che molte di queste modifiche o accolgono principi già espressi dalla Corte costituzionale o esplicitano accorgimenti che potrebbero già oggi essere previsti nei regolamenti parlamentari o, ancora, introducono meccanismi sì del tutto nuovi ma forse non decisivi (o ingenui: come è, ad esempio, la previsione della possibilità di chiedere che la Corte costituzionale si pronunci sulla legittimità costituzionale delle nuove leggi elettorali prima che entrino in vigore).
A questi interventi vanno, poi, aggiunti anche quelli finalizzati all’eliminazione del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro: organo molto nobile nelle finalità e nella composizione, ma storicamente assai poco incisivo) e al cd. «superamento del bicameralismo paritario (o perfetto)». Si tratta della soppressione del Senato come lo conosciamo oggi in favore dell’istituzione di un nuovo Senato rappresentativo delle autonomie territoriali e composto da cento unità, con contestuale riconoscimento in capo alla sola Camera dei deputati di buona parte della potestà legislativa e della prerogativa di dare (e togliere) la fiducia al Governo. Questa impostazione è naturalmente accompagnata da una serie di conseguenti e ulteriori declinazioni (che si ripercuotono, tra l’altro, sulle modalità di elezione del Presidente delle Repubblica e dei membri di altri organi costituzionali).
Anche di queste iniziative si discute da moltissimo tempo e, in proposito, si può pacificamente riconoscere che esse vanno incontro a esigenze più che ragionevoli: rendere, di norma, più efficace il procedimento legislativo; diminuire il numero dei parlamentari e delle «strutture» che finora si sono dimostrate poco funzionali. Sennonché non si può neanche trascurare che, da un lato, il rapporto che si crea tra la Camera dei deputati e il Governo – anche per effetto convergente di altra riforma, vale a dire la nuova leggeàelettorale: il cd. «Italicum» – spinge la forma di governo verso dinamiche, non pienamente razionalizzate, di tipo quasi presidenziale; dall’altro, la dialettica tra Camera e Senato non è del tutto esclusa (e può assumere un contenuto allo stato indecifrabile), sia perché quest’ultimo è comunque chiamato a condividere l’esercizio della funzione legislativa allorché si tratti di leggi che diremmo «particolarmente importanti» (il «bicameralismo», cioè, non scompare del tutto…), sia perché la possibilità che le esigenze territoriali trovino spazio all’interno delle leggi approvate dalla Camera è largamente lasciata, salvo qualche eccezione, al variabile gioco degli equilibri giuridici e delle prassi istituzionali (ossia alla circostanza che la Camera si lasci di fatto convincere dal parere che il Senato può esprimere).
Il nuovo Senato e i rapporti tra «centro» e «periferia»
La scelta che il nuovo Senato sia espressione degli interessi territoriali è uno dei tanti obiettivi cui anche gli addetti ai lavori hanno sempre guardato con particolare favore. Dopo aver sperimentato (specialmente in seguito alla riforma costituzionale del 2001) che l’autonomia regionale non è rafforzabile con la sola previsione di un aumento del numero delle materie in cui le Regioni possono legiferare, si è, in altri termini, immaginato di «territorializzare» i processi legislativi del «centro», e ciò, per l’appunto, mediante la previsione, nel cuore di quei processi, di un organo costituzionale che dia voce alla «periferia». È un’opzione, questa, molto interessante, da non sottovalutare, e che potenzialmente si armonizza – temperandola – con un’altra delle modifiche introdotte dalla riforma, ossia la riduzione esplicita, e per molti assai discutibile, degli ambiti o settori in cui le Regioni possono legiferare, con attrazione allo Stato di moltissime materie e, di più, con previsione di una «clausola di supremazia» che consente al Parlamento nazionale di richiamare l’interesse nazionale per avocare a sé ogni ulteriore competenza.
Le voci critiche non si levano tanto contro la scelta in sé, bensì contro le modalità con cui è congegnata, concretamente, la composizione di questa nuova rappresentanza territoriale.
Nella riforma, infatti, allo stato dell’arte, i senatori verrebbero eletti dai consigli regionali, tra i consiglieri regionali e i sindaci della Regione: chi garantisce, allora, che quei senatori rappresentino effettivamente gli interessi del territorio e non, viceversa, gli interessi della parte politica (di afferenza, di solito, nazionale) con cui sono stati eletti? Non sarebbe stato meglio pensare che nel «Senato delle autonomie» siedano i rappresentanti degli Esecutivi dei Governi regionali? Oppure, ancora, che i senatori individuati da ogni Regione siano tenuti a esprimere unitariamente il loro voto? Ciò va evidenziato per la circostanza che, storicamente, nel nostro Paese, non vi è traccia, se non in modo sporadico o temporaneo, di esperienze di aggregazione politica veramente locale: usualmente, chi fa parte di un consiglio regionale o chi è sindaco viene eletto sotto le insegne e con un programma elettorale che, per la gran parte, provengono direttamente dal «centro» del «partito». Potranno, costoro, essere effettivamente dialettici nei confronti di ciò che farà la Camera dei deputati? A tale interrogativo si può rispondere che tutto dipenderà da molti fattori, tra i quali l’eventuale formazione, nel nuovo Senato, di una maggioranza politicamente diversa da quella della Camera: teniamo conto, però, che, se la maggioranza è diversa, l’appeal delle sue proposte, per la Camera, è verosimilmente destinato a essere particolarmente basso…
Sempre dal punto di vista del coordinamento delle politiche statali e regionali, peraltro, la riforma nulla dice sul ruolo delle «Conferenze» (Stato-Regioni e Unificata), che invece hanno avuto, finora, un gran peso. Né si può dare eccessivo rilievo – nel senso di un rafforzamento delle autonomie – alla previsione secondo cui due giudici della Corte costituzionale verrebbero eletti dal solo Senato (i giudici siedono comunque in Corte per fare i giudici e non per rappresentare i territori…).
Nel ddl cost., infine, vengono abolite le province, seguendo un indirizzo di concreto e formale svuotamento (di quel livello di governo) che il legislatore ha già perseguito con varie riforme, dal 2010 in poi (e fino alla legge n. 56/2014, meglio nota come «legge Delrio»). Anche questa opzione presenta chiaroscuri facilmente intuibili: da un lato, il tanto declamato risparmio di spesa pubblica non è così alto; dall’altro, si prevede comunque – sia in una disposizione transitoria della riforma sia nella «legge Delrio» – che un (logico) livello intermedio di amministrazione di taluni e importanti servizi pubblici vi debba comunque essere.
Che pensare, dunque? Che fare?
La riforma presenta, all’evidenza, luci e ombre. Vi sono interventi che ci si aspettava da tempo; e vi sono anche previsioni che vanno in direzioni di cui si discute, allo stesso modo, da altrettanto tempo. Ciò premesso, non si può negare che vi sono anche profili specifici assai deboli e che – come è stato osservato da molti – riformare la Costituzione con la stretta maggioranza che pure è legittimamente utilizzabile a questo fine equivale ad aprire la strada – in presenza di una futura maggioranza alternativa – a una disattivazione politica della riforma stessa, ovvero a un’ulteriore riforma in chiave dichiaratamente antagonistica.
Va detto, a completamento del quadro, che qualche critico non ha mancato di rilevare come, paradossalmente, proprio i molti «vuoti» della riforma (gli aspetti meno facilmente decifrabili «in anticipo») potrebbero rivelarsi la vera forza del ddl cost., perché, lungi dal rappresentare esclusivamente fattori di incertezza, lascerebbero aperti margini di correzione concreta ed effettiva, in via interpretativa o in via di prassi, delle possibili fragilità delle soluzioni testualmente adottate. In altre parole, vi sono anche coloro che, pur annotando con sfavore molte delle scelte puntualmente previste nel ddl cost., ne ricordano le buone intenzioni, sottolineando gli ampi margini di miglioramento che si potrebbero conseguire in fase applicativa.
Come ci si può orientare, quindi? Dal momento che il tempo a disposizione è ancora molto, a chi scrive pare che ci siano ancora grandi margini affinché la cittadinanza possa informarsi meglio di quanto non farebbe in presenza di una normale consultazione elettorale; e che tale sia la vera opportunità del processo riformatore, che potrebbe, così, dare vita a un’arena pubblica di dibattito aperto e franco, nel quale comunicare nel modo più comprensibile anche le migliori osservazioni della dottrina costituzionalistica.
Se si verificassero questi presupposti, e se non si cedesse alla tentazione di affiliarsi emotivamente e automaticamente ai fautori del «Sì» come a quelli del «No», allora l’esito del referendum, qualunque fosse, sarebbe la scelta giusta.