La rivincita della rivincita
«Di’ qualcosa di sinistra!» implorava, gridava Nanni Moretti a D’Alema impegnato in un faccia a faccia televisivo con Berlusconi. Era il 1998 (il film Aprile) e qualcosa è davvero cambiato; gli anni non passano invano. Nel senso che Nanni, e forse nessun altro, non si aspetta più un qualcosa di sinistra nel vocabolario e nel programma del Partito Democratico.
Il «nuovissimo» segretario del Pd è un quarantenne fiorentino un po’ bollito. Le primarie – prevedo la metà dei votanti rispetto alle ultime – si terranno tra una settimana ma la vittoria di Matteo Renzi è già in cassaforte. L’ex giovane rivelazione della politica italiana non entrerà negli annali della storia, o forse sì, per una sola memorabile impresa: l’eliminazione scientifica della «Sinistra» dalla scena politica italiana. Il suo sogno è sempre stato il Partito della Nazione, una specie di nuova e invincibile Democrazia Cristiana. Un sogno che rimarrà tale.
Prima dell’esito (per lui) disastroso del referendum istituzionale aveva annunciato l’abbandono della politica: «Ho quarant’anni e posso fare un mucchio di altre cose». Ci ha subito ripensato. Ha messo alla porta Bersani e gli altri più ostici oppositori e, forte del voto di «quel che rimane» di un partito ormai dissanguato, spera nella rivincita.
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Confesso, anch’io da bambino quando perdevo chiedevo la rivincita. E non mi davo pace finché non l’ottenevo. Se poi perdevo di nuovo, chiedevo «la rivincita della rivincita». Poi sono un po’ cresciuto e ho imparato a perdere.
L’Italia no, i nostri politici no. Assolutissimamente no. La rivincita – insieme alla pizza e agli spaghetti – sembra una caratteristica, una «specialità» tutta italiana. Della politica italiana. Così Matteo Renzi. Così anche il suo incubo peggiore, quel Massimo D’Alema che da parecchi anni trama e programma la sua grande rivincita. Così Grillo, si ritira e lascia fare al Direttorio, poi, dopo qualche mese, riprende nelle sue mani il movimento e sconfessa la libera repubblica della rete. Non parliamo poi del Cavaliere, il campione assoluto, tre volte nella polvere e tre volte sull’altare. E così gli altri, pesi massimi o pesi mosca, con rarissime eccezioni.
Cosa sarà costato a Obama stare buono e zitto, mentre il nuovo presidente lo sbeffeggiava ogni giorno, rovesciandogli contro offese e accuse senza prove? E David Cameron sconfitto dalla Brexit e sparito dalla scena politica? E i tanti segretari del partito laburista inglese dimissionari dopo ogni sconfitta elettorale?
È vero, non è che «quello nuovo» sia sempre meglio di «quello che c’era prima». Anzi, vista la palestra in cui si allena la classe politica italiana del futuro, può persino darsi che il nuovo si riveli peggio del vecchio. Ma insomma, un buon pezzo della disaffezione verso la politica sta nell’abuso di potere, e di immagine, di politici dediti alla rivincita e al riciclo di sé stessi.
Fossero almeno «cavalli di razza», l’appellativo che si erano meritati gli eterni democristiani: Andreotti, Moro, Fanfani, Donat-Cattin e Forlani. Quelli di oggi (raramente presenti in parlamento e di continuo cinguettanti un tweet) sono ronzini di poco pregio, buoni al massimo a urlare in tivù. Che il popolo, la gente, gli elettori, non ne possano più, sia di questo gioco politico sia dei soliti giocatori in campo, è abbastanza comprensibile.
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Lo sanno tutti, una delle trovate più fallimentari del penultimo governo sono stati i vouchers. Dovevano essere una geniale risposta al precariato irregolare e far «emergere» il lavoro nero. Hanno prodotto l’effetto contrario. Per salvarsi dal referendum proposto dalla Cgil, governo e parlamento hanno azzerato i vouchers. Punto e a capo.
In campo c’è un’altra trovata: il reddito di cittadinanza. Che però del reddito di cittadinanza ha solo il nome. Sono 8 milioni e mezzo gli italiani che vivono sotto il livello di povertà (ultimo dato ISTAT). Meno di metà di loro riceveranno una mancetta dallo stato. Perché solo metà, e perché un contributo così basso?
«Non ci sono soldi», risposta prevedibile.
Ma perché in Italia cresce la povertà? Crisi a parte (per chi ci governa è sempre colpa della crisi), c’è qualcuno che ha le idee chiare. È colpa degli immigrati (meglio detti «clandestini») che rubano il lavoro ai poveri italiani. Le cose non stanno così – non lo dico io, lo dice sempre l’Istat – ma quando si dice una bugia, l’importante è ripeterla (nelle piazze d’Italia e nella piazzetta televisiva) per dieci, cento volte. Alla fine sembra quasi una verità.
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Alzi la mano chi sa chi è António Guterres? Non vedo molte mani alzate per il nuovo segretario generale delle Nazioni Unite, succeduto lo scorso gennaio a Ban Ki-moon. L’irrilevanza internazionale dell’ONU, la sua assoluta impotenza – le sue risoluzioni valgono ancora meno degli appelli di papa Francesco – sta diventando imbarazzante. O addirittura proverbiale: «L’ha detto l’ONU? Allora non conta niente». Non conta l’Assemblea e non conta neppure il Consiglio di Sicurezza, tutt’altro che in grado di assicurare un minimo di ordine e di sicurezza al globo terracqueo.
Appena finita la Grande Guerra, alla conferenza di Parigi nasceva la Società delle Nazioni. Fu sciolta nel 1946, a seguito del suo fragoroso fallimento, la Seconda Guerra Mondiale. Intanto, nel 1945, era nato l’ONU, nuove regole ma stesso destino: la totale impotenza. Vedi le ripetute risoluzioni contro gli insediamenti dei coloni israeliani. Vedi il presidente Bush che si getta a capofitto nella guerra irachena senza tener conto del Consiglio di Sicurezza. Vedi i francesi che scatenano l’incendio in Libia. Vedi Donald Trump che manco lo informa il Consiglio di Sicurezza e lancia la sua superbomba in Afghanistan.
Si parla ciclicamente di abolire gli enti inutili. Costosi e inefficienti. In Italia si sprecano, e di solito non vengono soppressi: cambiano solo nome e acronimo. Ma non è solo l’Italia. Dopo più di settant’anni di inutili riunioni e di enormi spese, è giunta l’ora di dichiarare fallito il carrozzone più grande di tutti. Aboliamo le Nazioni Unite. Mandiamo a casa i rappresentanti, e la pletora di funzionari, lobbisti, segretari, interpreti. Mettiamo i sigilli sulle porte del Palazzo di Vetro, con un cartello: «Chiuso per lutto».
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«Il populismo si manifesta quando un popolo non si sente rappresentato. È «malattia infantile» della democrazia quando i tempi della politica non sono ancora maturi. È «malattia senile» della democrazia quando i tempi della politica sembrano essere finiti. Come ora, qui, non solo in Italia».
Credo non si potrebbe dire meglio. Lo scrive Marco Revelli nel suo libro appena uscito: Populismo 2.0, Torino, Einaudi, 2017.
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Recep Tayyip Erdogan ha vinto il suo referendum, ma la sua è stata una vittoria di stretta misura, poco più del 51%. Nelle grandi città (Istanbul, Ankara, Izmir) i No al progetto autoritario di Erdogan hanno surclassato i Sì. Gli osservatori internazionali hanno rilevato brogli (2,5 milioni le schede sospette) e intimidazioni durante e dopo le votazioni. In un documento di 14 pagine l’Ocse ha dichiarato irregolare, quindi nullo, il referendum istituzionale.
Il referendum non sarà annullato. Il nuovo pascià della Turchia andrà avanti per la sua strada e la sua repubblica super-presidenziale assomiglierà sempre di più a una dittatura. Ma nonostante le congratulazioni per la vittoria inviategli da Donald Trump, nonostante le solite timidezze della Comunità Europea, l’opposizione a Erdogan, pur divisa al suo interno, dimostra che non sarà facile imporre per tanto tempo le catene a un grande paese a cavallo tra Europa e Asia.
Spero non sia un miraggio. Ma dagli ultimi esiti elettorali, in Turchia, ma anche in Austria, in Olanda, nel Land della Sar, le forze antiliberali, xenofobe e populiste sembrano in difficoltà. L’onda sembra essersi arrestata. Le elezioni in Francia e in Germania ci diranno meglio se gli europei sono rinsaviti.
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Sergio Pirozzi non allenerà mai la Juventus o il Manchester United. Dopo aver condotto in Promozione la squadra del suo paese, l’Amatrice Calcio, ha girato per il centro Italia, allenando l’Ostiamare, la Sorianese, il Rieti, la Viterbese, l’Aprilia, il Trastevere Calcio. Pirozzi, un mister di un calcio minore – quello semi-professionistico -, è stato premiato (insieme a Maurizio Sarri, visionario allenatore del Napoli) con la «Panchina d’oro». Prima ha rifiutato il riconoscimento, poi l’ha accettato «in quanto sindaco e rappresentante di Amatrice, colpita durissimamente dal sisma».
Maurizio Sarri e Sergio Pirozzi li ho sentiti dialogare in una trasmissione sportiva. Si capivano e apprezzavano: entrambi conoscono bene le periferie e la gavetta.
Sergio Pirozzi, sindaco dal 2009, dopo aver scavato con le mani per trovare qualche sopravvissuto, dopo aver contato i morti («Amatrice non è grande, li conoscevo tutti»), non ha più voluto andare nella «zona rossa». Perché lo fa stare male. Perché c’è altro da fare.
Durante le vacanze di Pasqua, alcuni turisti scattavano selfie davanti alle macerie. Pirozzi si è avvicinato e li ha mandati via. Bravo questo sindaco allenatore.