La questione dei rifugiati
Una questione di numeri
Il 20 giugno, in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, l’UNHCR, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, ha pubblicato il suo rapporto annuale. Darci uno sguardo, in via preliminare, è utile. I numeri, infatti, aiutano a razionalizzare; ad accorgersi, ad esempio, che l’emergenza rifugiati è un tema globale, del quale la situazione europea è solo una parte.
Nel mondo i rifugiati ammontano, quest’anno, a 65.300.000, e sono in crescita costante (circa 34.000 al giorno). Più della metà proviene da noti scenari di guerra (soprattutto dalla Siria, dall’Afghanistan e dalla Somalia) e una stragrande maggioranza (circa l’86%) trova protezione in paesi del cd. «terzo mondo». Tanto per farsi un’idea, se il Libano accoglie ben 183 rifugiati ogni 1.000 abitanti, la Turchia ne accoglie 32, la Svezia 17 e l’Italia 3.
L’Eurostat, peraltro, ha comunicato recentemente che, in termini assoluti, coloro che hanno chiesto asilo in un paese dell’Unione europea sono stati, nei primi tre mesi del 2016, 287.085, con un calo, rispetto all’anno precedente, del 33%. Nello stesso periodo, in Italia hanno fatto istanza 22.000 persone (con un calo complessivo del 10%); e l’Italia è, al momento, il secondo paese, in Europa, per numero di richieste (il primo è la Germania, con 171.000 domande; poi, dopo l’Italia, ci sono la Francia, l’Austria e la Gran Bretagna).
A essere in aumento, sia nei singoli paesi sia, complessivamente, in Europa, è il numero generale delle domande tuttora in attesa di esame (che sono, di fatto, rispetto all’anno scorso, raddoppiate: più di un milione; la crescita vale anche per l’Italia: attualmente le domande pendenti sono circa 60.000). Da ciò si comprende che le emergenze, finora, hanno molto a che fare soprattutto con questioni di natura organizzativa.
L’Europa, i suoi confini e gli stranieri
Come fa l’Europa ad affrontare e gestire simili questioni? Innanzitutto: perché è un problema? La risposta a questo primo quesito è difficile e facile allo stesso tempo.
Ogni Stato ha un confine, che tradizionalmente identifica una comunità, un territorio, leggi specifiche che quella comunità si è data, un’organizzazione pubblica che presta servizi per quella comunità. Accogliere nello Stato soggetti altri significa riconoscere loro alcuni diritti e condividere con essi determinate utilità. Questo processo, ovviamente, genera conflitti, che a loro volta producono consenso o dissenso, e che si scaricano, quindi, sul modo con cui le istituzioni dello Stato «governano» gli ingressi. Questo è uno dei motivi per i quali gli ingressi sono in qualche modo «eccezionali»: il rifugiato può avere un titolo a entrare, perché riconosciuto come bisognoso di tutela dal diritto internazionale (v. la Convenzione di Ginevra del 1951) o dalle costituzioni dei singoli Stati (v. l’art. 10 della Costituzione italiana); viceversa, il cd. «migrante economico» (come viene spesso appellato) deve seguire una via particolarmente tortuosa, che consente agli Stati una maggiore discrezionalità.
In un panorama come quello europeo, in cui i confini interni non ci sono più, l’esigenza di «governare» gli ingressi e di allocare gli stranieri nel modo più opportuno non si propone solo agli Stati, ma emerge sul piano delle istituzioni di Bruxelles, che nel corso degli ultimi quindici anni, non a caso, hanno dettato regole comuni via via più dettagliate, dirette a tutti gli Stati dell’Unione, ma fatalmente concentrate – se così si può dire – su alcuni Stati in particolare, quelli di primo ingresso degli stranieri, quelli, cioè, in cui lo straniero che chiede protezione è tenuto a presentare la sua domanda.
Un simile meccanismo ha generato – e genera tuttora – dinamiche non del tutto virtuose: la coincidenza tra luoghi di pressione migratoria e luoghi di emergenza (come sono la Grecia e l’Italia); lo spostamento verso questi luoghi della conseguente pressione sul controllo dell’immigrazione irregolare; l’allentamento dei legami di solidarietà tra i «popoli» dell’Unione e la costruzione di nuove e terribili barriere tra un confine e un altro; la sperimentazione di accordi tra l’Unione e Stati non europei (come la Turchia) per far sì che i migranti vengano accolti (o «trattenuti»…) il più possibile in questi ultimi territori.
Rifugiati, princìpi di civiltà e accoglienza
La questione dei rifugiati si propone ai paesi dell’Unione anche sotto un’altra ottica, vale a dire nella prospettiva dei diritti e delle libertà di cui i migranti devono godere nel momento in cui «impattano» con il confine.
La gestione concreta delle differenti tipologie di migrazione obbliga gli Stati a mettere in campo ogni sforzo per garantire al migrante l’effettiva possibilità di chiedere protezione, da un lato assicurandogli anche l’assistenza indispensabile (linguistica, ad esempio) a formulare l’istanza, dall’altro facendo in modo che non siano violati i diritti che anche le costituzioni nazionali riconoscono a ogni uomo (la libertà personale, il diritto di difesa, ecc.).
È evidente che è in questa fase che, anche nel nostro paese, si sono formate prassi (come lo sono state quelle relative a forme, illegittime, di respingimento collettivo alla frontiera) poco rispettose di prerogative individuali di natura fondamentale, censurate anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. E anche gli accorgimenti organizzativi immaginati in sede europea, gli «hotspots», pur rivelandosi assai utili per velocizzare e rendere maggiormente efficienti i procedimenti di ingresso e di identificazione, e per facilitare anche un monitoraggio da parte delle organizzazioni internazionali, non hanno fugato il campo da ogni dubbio: valga ad esempio il fatto che ne è ancora incerta la natura giuridica e che, pertanto, molte delle operazioni che vi vengono compiute sfuggono dall’applicazione di una disciplina certa e univoca. Ciò, forse, dipende anche dalla circostanza che gli «hotsposts» non sono luoghi di nuova istituzione: essi si sono parzialmente sovrapposti ai preesistenti «centri» già istituiti dalle leggi che si sono susseguite negli anni (i cc.dd. CPSA, CDA, CARA… ecc.).
Risultati maggiormente incoraggianti, invece, vengono dal sistema dell’accoglienza, ossia dalla rete di dislocazione di tutti coloro che hanno fatto istanza – o che sono stati riconosciuti come titolati a farla – in attesa di una risposta dalle apposite Commissioni territoriali (contro il cui verdetto gli interessati potranno ancora reagire, rivolgendosi al giudice e ricevendo, a tale scopo, un’assistenza specifica, prevalentemente fornita dal vasto e attivo mondo del volontariato).
A tale riguardo, il nostro paese ha optato per una sorta di sistema «misto», ormai entrato a pieno regime, nel quale, una volta separati da coloro che risultano meramente irregolari (e destinati, quindi, a essere rimpatriati), gli aspiranti a una qualche forma di protezione internazionale sono collocati nelle diverse Regioni o nei Comuni che abbiano volontariamente aderito alla rete SPRAR (Servizio centrale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati: gli enti locali, naturalmente, sono incentivati ad aderire) ovvero nei luoghi in cui il Ministero dell’Interno, in caso di necessità, abbia identificato la sede idonea in caso di sovrannumero (ipotesi che accade molto spesso). Una volta collocate, queste persone sono coinvolte in piccoli percorsi di integrazione e in progetti locali di interesse generale, il cui positivo svolgimento viene talvolta valutato come ulteriore titolo per ottenere il riconoscimento della protezione.
Chiudere il cerchio
Se questo è, in estrema sintesi, lo stato delle cose, così come si presentano oggi, occorre capire come reagire ulteriormente, per perfezionare il sistema attuale, ma anche per bilanciarlo e renderlo sostenibile con nuovi strumenti.
Da più parti si critica la perdurante distinzione tra rifugiati e migranti economici, e lo si fa non da un punto di vista ideologico, bensì da un punto di vista eminentemente pratico: si può veramente dire che chi proviene da una regione del mondo colpita da una forte carestia o da eventi naturali particolarmente catastrofici non abbia «diritto» a cercare tutela in altri contesti?
Sul punto si può osservare che, probabilmente, la pressione dei migranti economici sul sistema di protezione internazionale sarebbe attenuata – con recupero, anche solo parziale, di una sua complessiva funzionalità – se gli Stati mutassero la loro legislazione sugli ingressi regolari degli stranieri lavoratori, rendendoli più semplici e meglio collegandoli alla programmazione delle politiche economiche dei governi. Ma un ulteriore «sollievo» si potrebbe avere se gli Stati – in primis l’Italia – cambiassero anche la loro disciplina sull’acquisto della cittadinanza, ancora assai rigida e «non comunicante» con il sistema della protezione internazionale: il rifugiato, una volta riconosciuto come tale, gode di molti diritti, ma per diventare cittadino deve seguire le regole che valgono per qualsiasi altro straniero e che ancora riconoscono all’amministrazione margini – e tempi – amplissimi di valutazione.
Se questo è vero, tuttavia, ci si accorge che per «chiudere il cerchio» sarebbe necessario accorgersi che le migrazioni non mettono in campo un fenomeno eccezionale, ma vanno traguardate come ordinari canali di rinnovamento del tessuto sociale su cui si regge la comunità degli Stati e dell’Unione europea. Se si vuole che i loro «confini» siano più saldi occorre che il loro «popolo» sia attraversato da un necessario processo di osmosi, da quel processo, cioè, che ne ha contraddistinto, da sempre, la ricca e plurale identità.