La profezia e la sfida odierna dell’ultimità

di Cardini Egidio

Rileggere la profezia è particolarmente necessario quando essa pare mancare. In realtà la profezia è una categoria religiosa che trova anche mediazioni politiche e sociali, paradossalmente non applicate alla fede, ma svelate dentro un contesto di responsabilità storiche spesso distinto da ogni esperienza religiosa. In fin dei conti la profezia è, dentro la rielaborazione culturale di un’epoca, un desiderio inespresso e contestualmente un avversario da temere. Si costruisce abilmente una retorica su una profezia che sovente non esiste o non è presente e poi, quando la si incontra nelle sue forme concretamente umane, la si stronca o si fugge da essa. Parlare di profeti diventa motivo di esibizione dialettica, ma assumere la loro condizione profetica è ragione di rifiuto e di fuga.

La crisi della profezia religiosa

L’esempio della crisi della profezia religiosa, specialmente in ambito cristiano e cattolico, è rappresentato dall’equivoco, non si sa quanto studiato, sull’eventuale profezia del santo Giovanni Paolo II.

Da molti considerato a gran voce come profeta, Giovanni Paolo II non deve la sua santità a uno stile profetico della sua esistenza, o meglio, lo deve soltanto parzialmente, poiché egli non ha sempre dimostrato di possedere alcune caratteristiche peculiari della profezia biblica, la quale è da sempre comunemente riconosciuta secondo aspetti consolidati e indiscussi. Il profeta è uomo intensamente innamorato di Dio e immerso nella dedizione a Lui, è educatore del popolo, è artefice di una riflessione critica sulla fede in un contesto autenticamente popolare, è nemico dichiarato dell’ingiustizia umana, intesa a sua volta come negazione della prospettiva e della volontà di Dio, è anticipatore della visione di Dio in relazione alle responsabilità da assumere per il futuro, è il tessitore di una fede libera da qualsiasi incrostazione degli elementi del potere.

In questa chiave a Giovanni Paolo II potrebbero non essere riconosciute alcune caratteristiche, soprattutto in relazione a un’interpretazione della Chiesa e della fede non sempre concentrata sul valore della denuncia e sull’anticipazione di visioni coraggiose davanti al futuro. Semplicemente Giovanni Paolo II ha una santità «altra» perché altre meravigliose caratteristiche, a partire da un tenace attaccamento al senso di Dio nella vita personale e nella sofferenza, lo hanno contraddistinto. Ma non la profezia e, nonostante questo, la retorica mass-mediatica del nostro tempo riempie la coscienza di molti con parole sulla profezia, separandole dalla profezia quotidianamente vera.

Quindi oggi la profezia non tace, ma è messa a tacere. Lo è in tutti i periodi storici in cui emergono contraddizioni dettate dal desiderio di compromissione con un potere umano che consente una fede astorica e intimistica, ma stronca senza pietà le tensioni verso la giustizia del Regno di Dio. In quest’ultima categoria si gioca il conflitto tra la profezia e il potere. Di mezzo c’è la fede in Dio, sempre più compressa, svuotata e strumentalizzata.

Assunzione storica di responsabilità

La stessa debolezza del dato di fede spalanca le porte alla disincarnazione e al distacco da ogni responsabilità di contrasto con ciò che vìola la dignità dell’uomo. Questa stessa dignità diventa semplice dettaglio del proprio universo e non centro della Rivelazione del Dio di Gesù Cristo. C’è un’ingiustizia di fondo nella severa condanna di ogni espressione della Teologia della Liberazione, poiché essa è stata tacciata troppo frettolosamente di essere priva di un metodo teologico che ponesse al centro di tutto le stesse ragioni della fede, come se quest’ultima prescindesse dalla condizione storica dell’uomo.

L’idea di «uomo via della Chiesa», emersa nella Redemptor hominis di Giovanni Paolo II, è restata, ed è un peccato davvero, in una condizione genericamente astratta.

«Essendo quindi quest’uomo la via della Chiesa, via della quotidiana sua vita ed esperienza, della sua missione e fatica, la Chiesa del nostro tempo deve essere, in modo sempre nuovo, consapevole della sua «situazione»» (RH 14).

Questa consapevolezza non può fermarsi a una prospettiva meramente intellettuale, ma diventa assunzione storica di responsabilità in difesa della sua dignità. Non farlo apre le porte all’ossequio verso il potere e al distacco dalla condizione degli ultimi.

La necessità di scegliere gli ultimi

Il tema della scelta preferenziale degli ultimi, cioè dei poveri, è terribilmente insidioso. L’astrazione della categoria della povertà e la sua separazione dalla condizione storica del povero ha generato la più classica delle ipocrisie religiose e, congiuntamente a essa, ha giustificato in forma strisciante un’interpretazione beneficente dell’attenzione al povero, sottovalutando ogni vigorosa denuncia. L’urlo dei profeti è stato coperto dal silenzio dei benefattori.

Oggi questa scelta esce prepotentemente dal contesto del semplice sentimento religioso per irrompere nell’universo delle relazioni politiche e sociali. Il «clamore dei poveri» richiamato dall’Assemblea della Chiesa latinoamericana a Medellin, accompagnato dall’impegno di «staccare dalla croce i crocifissi», come ricordato da Inacio Ellacuria, è la cartina di tornasole di una fede credibile.

Scegliere gli ultimi è quindi atto drammaticamente necessario per conservare l’obiettivo centrale della fede nel Gesù Cristo storico, che è la giustizia del Regno e quindi la difesa e l’elevazione della dignità umana. In questo senso la profezia è atto di rottura definitiva e incancellabile. La Chiesa insipida di oggi, scandalosamente piegata su sé stessa e su ciò che non alimenta il senso dell’annuncio cristiano, teme la profezia e, temendola, teme la propria fede. Preferisce leggere altre storie e altre pagine, ignorando pericolosamente che il destino dell’annuncio sta nell’assunzione di una responsabilità storica e di una consapevolezza della situazione umana. Quindi non è più sufficiente fare stucchevoli iconografie di Giovanni Paolo II, mentre è necessario approfondirne l’analisi per andare oltre la sua stessa analisi.

Scegliere l’ultimità…

In ambito politico la radicalità rappresenta il futuro, mediante scelte di ulteriore rottura, non tanto in una chiave di romanticismo rivoluzionario, ma di progettualità alternativa, di opposizione al sistema neocapitalista quando questo si trasforma in una chiave di morte lenta e progressiva.

Esiste un centrismo esistenziale ormai sconfitto in un’epoca priva di mediazioni. Il radicalismo liberale, trasformatosi in neoliberismo, ha prodotto uno squarcio nella coscienza e nella vita delle persone e quindi non è ragionevole pensare a una riformabilità del sistema capitalista. Esso è tendenzialmente e infinitamente oppressivo della vera libertà della persona umana. In questo senso esiste una profezia politica nel momento in cui si riesce a stabilire una linea invalicabile a difesa e a tutela della dignità dell’uomo. Con la stessa passione con la quale una fede cristiana autentica si aggrappa all’uomo per liberarlo, è possibile elaborare strategie di giustizia e di sviluppo.

Il silenzio della profezia in ambito politico è adesso visibilmente raffigurato dalla fortuna di ogni politica radicata nell’intolleranza e nel rifiuto della persona debole o emarginata. L’ateismo strutturale del neocapitalismo passa attraverso il suo rifiuto dell’uomo e la sua negazione dell’ultimità.

Ultimità è un termine strano, raramente scritto o pronunciato, ma pur sempre nevralgico. Oggi l’ultimità è la chiave di volta per riappropriarci di un futuro umano. In chiave escatologica religiosa essa non è altro che il compimento della Parola sugli ultimi che diventano primi e sulla giustizia del Regno. In chiave politica l’attenzione a essa è la garanzia sul bene comune che unisce chi crede nell’uguaglianza tra le persone.

Rovesciare l’ultimità non è più quindi un’idea velleitaria, ma, al contrario, un’azione ragionevolmente rivolta al futuro. In questo passa la profezia. Profezia intesa come sguardo verso il futuro, come progetto sul futuro, come passione per il futuro nella bellezza del presente.

Le immagini di un futuro incantevole, spesso decantato nella profezia biblica, sono la sintesi imprevedibile di un sentimento religioso orientato al bene e di una passione civile anch’essa orientata al bene.

Tutto ciò è possibile solo con atti di rottura. Ne sono intimamente convinto e credo che la nostra timidezza di fronte alla necessità della rottura non favorisca la costruzione del futuro. Forse è proprio questo ciò che oggi maggiormente inibisce la fioritura della profezia.

E poi rovesciare l’ultimità

Profezia, ultimità e crocifissi staccati dalle croci. In questi tre concetti si adagia il senso di una responsabilità storica, dove la fede in un Dio fattosi uomo, e uomo reietto per chi è credente, e la fiducia in un uomo capace di costruire un presente e un futuro ricolmo di bellezza e di giustizia per chi non lo è, si incontrano. In questa sintesi risiede la nostra «consapevolezza sulla situazione dell’uomo».

L’ultimità è una sfida durissima e a essa si associa la condizione terrificante degli uomini da staccare a forza dalle loro croci. Ecco perché non smetteremo mai di cercare e di ascoltare i profeti. Dal rovesciamento dell’ultimità trarremo indicazioni sul mondo che sarà consegnato a chi verrà dopo di noi. Non a caso abbiamo un Dio che rovescia i potenti dai troni.

Non a caso. Dalla scelta dell’ultimità e dal suo definitivo rovesciamento si legge il senso della nostra storia.