La pedagogia della parola 5
Ricordando Giuseppe Stoppiglia
Dovunque noi siamo
Il nostro primo incontro risale a circa 35 anni fa, in terra di Sardegna (la mia), per un corso sindacale che, come i corsi successivi, si è rivelato una fonte di conoscenze ma soprattutto una fonte di relazioni positive e durature tra le persone. Da allora il caso o il disegno sovrannaturale ci ha fatto incontrare più volte negli anni successivi, non solo in Sardegna. Anche quando gli incontri diretti sono andati scemando, ti ho avuto sempre accanto attraverso la rivista madrugada, le tue lettere appassionate cariche di riflessioni e i tuoi libri che spaziano oltre le tragedie quotidiane che ci circondano per regalarci la speranza in un mondo migliore, se ognuno di noi fa la sua parte. Questa relazione speciale mi fa dire, con le parole di sant’Agostino: «Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano, ma sono dovunque noi siamo».
Stefano Farris
Nello sguardo del vicino
Ho conosciuto don Giuseppe attraverso i racconti di Toni Cortese, suo amico e compagno di lavoro. Poi, nei seminari estivi l’ho incontrato e apprezzato per le sue numerose doti: apertura, sensibilità, accoglienza, vena poetica, capacità di osservazione ed empatia. Sono rimasta affascinata anche dal suo far vivere la messa come momento d’incontro gioioso, e non solo come rito collettivo. Mi ha fatto conoscere un Dio che si trova nello sguardo del vicino.
Annabruna Faedo
Ben centrato fra cielo e terra
La sua sensibilità, l’acutezza nel comprendere contesti sindacali e politici, l’ironia trascinante, la forte dialettica e l’ascolto delle posizioni altrui.
Soprattutto era un poeta, ben centrato fra cielo e terra. Innamorato della vita.
Luciano Fadda
Quelli che il calcio
Ho conosciuto Giuseppe circa venticinque anni fa, lavoravo a Quelli che il calcio, in TV, me lo presentò Fabio Fazio, suo caro amico. Mi affascinò con i suoi racconti sudamericani e da allora decisi di rimanere in contatto con Macondo, ma non lo rividi più.
Mi riapparve davanti in occasione dell’arrivo in Italia di Leonardo Boff.
Ci osservava tutti con un sorriso affettuoso. «Fate troppo» – ci diceva.
Non era un giudizio, ma un consiglio davanti alla nostra frenesia insensata, avanti e indietro per studi e redazione.
Difficile non volergli bene, molto più difficile seguire i suoi consigli.
Mi sarebbe piaciuto averlo accanto durante le nostre lunghe e spesso inutili riunioni di lavoro. Così, senza dire niente. La sua sola presenza a dare equilibrio all’anima, un impegno impossibile per un uomo tanto impegnato.
Mi piace pensare che ora avrà più tempo. Lo aspetto.
Marco Posani
Considerava lo sconosciuto un angelo inviato da Dio
Giuseppe Stoppiglia è stato un uomo che si è nutrito di relazione e di relazioni ha vissuto tutta la sua esistenza. Relazioni in primis con e fra gli uomini, che lo coinvolgevano e lo interpellavano, sempre nelle vicende concrete di vita, tra luce e oscurità, gioie e dolori, nelle quali poneva la relazione con Dio, ma sempre in forma laica, mai giudicante e sempre accogliente, così come era lui nel suo essere prete e viandante.
Grande la sua fede, intesa come fiducia nel domani e nell’uomo, immensa la sua apertura all’Invisibile, tanto da considerare lo sconosciuto un angelo inviato da Dio. È stato per tutti noi la carezza del Dio invisibile e della sua Buona Notizia.
Andrea Agostini
Veleggiare in mare aperto
Tu hai intuito che si poteva, che si dovevano produrre riflessione e azioni educative, offrendole con gratuità a chi ti incontrava; non importava che fosse bambino, giovane, adulto, vecchio.
Il fascino che usciva da te era proprio questo: quell’educare libero, la gratuità dell’offrire un pensiero libero, un impegno libero, per far crescere all’attenzione e all’amore per i vicini e i lontani.
Questa è l’aria che abbiamo respirato in questi anni e di questo ti ringraziamo.
In me e in Luigia hai portato la provocante mentre mi diceva: «Cosa fai quest’estate? Vieni con me in Brasile? Ti faccio conoscere Macondo!».
Quell’estate finii poi in Chiapas, in Messico, a vivere due settimane con delle ragazze indigene, un’esperienza indimenticabile.
Da allora grazie a Giuseppe e a Gaetano, ai viaggi, alle conferenze, alle letture e incontri con tanti amici di Macondo, ho capito che il viaggio più grande è quello che facciamo dentro di noi e nell’altro.
25novità del sentirsi amati, sempre, e come in noi, in tanti altri. Questo era lo spirito che attraverso Macondo hai portato e fatto crescere.
Hai educato a veleggiare in mare aperto, tra la bonaccia e la tempesta, spronandoci ad assumere, nella libertà, la responsabilità della navigazione, con una sola certezza, di avere accanto un amico, un maestro, un padre, una guida, un nocchiero, un allenatore, non so quale termine usare, forse tutti insieme contemporaneamente, o forse, di volta in volta, la figura più rispondente e appropriata al bisogno.
In te abbiamo visto privilegiare la interiorità, la forza dello spirito e della parola, non la quantità, né i numeri, né il fare.
Gianni Pedrazzini e Luigia Margini condivisa dai nostri figli Chiara e Samuele
Il carisma di Giuseppe
Cos’è il carisma? È quel dono innato, sovrannaturale, straordinario, che Giuseppe possedeva e che chiunque entrasse in contatto con lui percepiva.
È la forza e l’incanto di cogliere l’anima delle persone, di sentire lo spirito del tempo, di suscitare la nascita di movimenti collettivi sulla base del messaggio evangelico come scelta di campo, dalla parte dei più deboli e dei sofferenti, è la potenza del suo linguaggio poetico e profetico. Nella consapevolezza appassionata della centralità della relazione umana e che «io sono, a partire dal momento in cui creo comunione con l’altro».
Negli anni ’70, giovane prete a Comacchio, nella comunità di giovani che si formò attorno a lui, diede origine a un movimento culturale che maturò la necessità dell’impegno sociale e politico per far divenire il cristianesimo una forza di trasformazione dell’ordine di cose esistenti e un motore di cambiamento del mondo, partendo dalla formazione e dalla conoscenza del proprio tempo e del proprio paese. Giuseppe si accorse prima di altri come il pensiero liberista stesse per imporre anche a Comacchio il modello unico del turismo, disperdendo così il delicato rapporto con l’ambiente e con le risorse legate alla grande valle e alla pesca. E la città, non senza contrasti e resistenze, venne investita da questo vento innovatore e di riflessione critica.
Ricordo le omelie domenicali incandescenti, che sapevano interpretare i passaggi evangelici alla luce dei problemi che l’attualità poneva all’ordine del giorno, scuotendoci energicamente. Oggi, ogni omelia al confronto mi pare appannata.
Ricordo i tuoi occhi azzurri e le tue colossali arrabbiature con i ragazzi del gruppo che non stavano alle regole. E quella scalata delle Mesules con Ermanno, Guido, Piero e quella sedicenne sognante che ero io. A mani nude, senza attrezzatura, verso la cima; a me per caso venne offerta un’imbracatura da alcuni scalatori britannici che incontrammo lungo il percorso e che erano stupiti dal fatto che non avessimo corde e altro.
Ecco, tu osavi senza timore, rischiavi senza calcolare, affrontavi la vita impavidamente, senza ipocrisie e doppiezze, anzi, a volte ci metteNella lettera ai soci dell’aprile 2010 Giuseppe affronta i temi della gratuità, dell’indifferenza e dell’imbarbarimento dei costumi, con l’educazione al brutto, all’accumulo e sorge nel mezzo della lettera una pagina dal tono profetico; scrive infatti: «È, appunto, il singolo ciò su cui la società costruisce tutta la sua ideologia. I diritti sono solo quelli degli individui, perciò, rispetto agli altri, non vi possono essere che contratti, in funzione dei rispettivi interessi e del reciproco scambio. Un’epoca caratterizzata dal primato del contratto e dall’eclissi del patto di fedeltà e di solidarietà. Se tale è l’impianto di fondo (l’individualismo proprietario), non c’è da stupirsi di quanto possano essere vuoti e sterili i richiami (anche cattolici) a una mera solidarietà ed è giustificato il consenso crescente alla Lega, che rappresenta pienamente lo spirito anti-solidale».
[Lottare contro la società individualistica e indifferente, aprile 2010, in Vedo un ramo di mandorlo,, pag. 20] vi a nudo pubblicamente, rivelando debolezze e lati che avremmo voluto tenere nascosti.
Una delle ultime volte che ti ho visto è stato a Rio de Janeiro, incerto sulle gambe ma molto lucido nell’analisi della situazione. Dalla parte degli abitanti delle favelas e i bambini di strada, per lottare contro l’ingiustizia della povertà, senza fare solamente assistenza, ma condividendo un impegno e una partecipazione al cambiamento di quella condizione. Sempre insieme a una «ricerca di spiritualità che accompagni e orienti il vivere quotidiano».
Sandra Carli Ballola
In Paradisum deducant te Angeli…
Avevo appena attivato il computer e ascoltavo la bellissima antifona gregoriana «In Paradisum deducant te Angeli; in tuo adventu suscipiant te Martyres, et perducant te in civitatem sanctam Jerusalem. Chorus Angelorum te suscipiat, et cum Lazaro quondam paupere, aeternam habeas requiem» (In paradiso ti accompagnino gli angeli e al tuo arrivo ti accolgano i martiri e ti conducano alla città santa di Gerusalemme. Ti accolga il coro degli angeli e con Lazzaro povero in terra, tu possa godere il riposo eterno nel cielo), quando squilla il telefono e vengo a sapere della morte dell’amico Giuseppe Stoppiglia.
Sorpreso della coincidenza della notizia con la musica e le parole dell’antifona gregoriana, ho subito immaginato gli angeli e i martiri del cielo condurre e accogliere nelle loro braccia in paradiso il caro Giuseppe.
L’ho conosciuto verso la fine degli anni ’80 grazie all’amica Santina Tonellotto di Vicenza, che ci fece incontrare a casa sua invitandoci a cena. Si creò subito un legame di forte empatia e affetto – era questo il suo dono più grande – e da quell’incontro iniziò per me una nuova e lunga stagione di amicizia e collaborazione con Macondo. È stato un periodo bello e intenso, con la partecipazione a incontri, dibattiti, seminari, convegni e presentazione di libri. E con il dono-viaggio indimenticabile in Brasile, sotto la guida e saggezza di Gaetano. Con cuore grato ringrazio te e i tuoi «macondini» per lo spazio che mi hai aperto e il bene di cui sono stato oggetto.
Nel luogo dove sei e ci attendi – il «Regno» compiuto di Dio – ti immagino in compagnia di uomini e donne non più vittime di ingiustizie, sofferenze e violenze, contro le quali hai dedicato l’intera tua esistenza. E ancora ti immagino non più animato dall’ira profetica ma solo da parole tenere e dolci, custodite e gridate in tutti i tuoi gesti, abbracci e scritti di cui conservo traccia e memoria.
Carmine Di Sante
Un uomo che credeva negli uomini
Avevo iniziato a raccogliere i tuoi scritti degli ultimi cinque anni, perché mi avevi chiesto di pubblicare il tuo quinto libro prima che la morte ti venisse a cercare. Avevo così iniziato a buttare giù alcuni titoli tra i quali scegliere assieme. Non c’è stato il tempo.
Ci siamo incontrati la prima volta nell’ottobre del 1990, alla Cisl di Vicenza, dove stavo svolgendo il servizio civile. Grazie anche alla vicinanza delle nostre abitazioni, è iniziata la mia collaborazione con te, con Maria, con Gaetano e con l’Associazione Macondo. A ogni rinnovo delle cariche dell’associazione, chiedevo di essere sostituito nell’incarico, per favorire il ricambio e l’alternanza, finché qualche anno fa mi hai fatto promettere di non metterti più di fronte a questa scelta e di rimanerti accanto fino alla morte.
Quante ore trascorse assieme, i confronti, fino al giorno prima della tua morte, quando ero venuto per rimediare alla mia assenza del giorno precedente: mi avevi amabilmente richiamato via e-mail per non essere passato la domenica pomeriggio, come ero solito fare; mi scrivesti che mi avevi aspettato, inutilmente, perché avevi bisogno di confrontarci assieme su alcune proposte per Macondo; e poi tutti i viaggi fatti assieme, caricando e scaricando valigie piene di libri e di copie di madrugada da offrire negli incontri.
È stato un grande privilegio vivere con te questi anni, perché mi hai insegnato che amare qualcuno non vuole dire fare delle cose, ma rivelargli il suo valore, perché il volto dell’altro è il luogo dove incontriamo Dio. Eri un uomo che credeva negli uomini, perché attraverso di loro vedevi quel Dio che non abbiamo mai visto.
Quell’ultimo incontro, il tuo ultimo scritto, mi sembra ora come il cammino fatto assieme verso Emmaus e «arde» ancora il nostro cuore mentre conversavi con noi lungo la via.
Per dare un senso alla tua partenza, non ci rimaneva che raccogliere da terra la valigia che hai lasciato, mentre tu ti incamminavi nel viaggio senza ritorno, dopo averti accompagnato fino all’ultima curva, nel tramonto rosso di quella sera. Per continuare da soli, dopo un cammino lungo trent’anni della mia vita, non potevamo che ricominciare da lì, dalle ore e ore trascorse a parlare assieme a te, a parlare di te e attraverso di te: attraverso i tuoi scritti, che abbiamo cominciato a leggere nella messa di Natale, come una sorta di Nuovissimo Testamento: donandoli ad amici, a conoscenti, alle persone che incontriamo. Attraverso le parole che ci hai lasciato come eredità, continueremo a vedere il fiorire del ramo di mandorlo che porta la primavera e la speranza.
Stefano Benacchio
Conca e canale della profezia del Concilio
Ricordo un incontro di dieci anni fa in parrocchia, un’intervista a don Giuseppe, accompagnato da don Gaetano, per parlare di Concilio e della sua ricezione nel decennio (1965-1975) in cui era stato parroco nella chiesa del Rosario a Comacchio.
È stato illuminante per me ricevere la testimonianza della sua esperienza pastorale tra la gente di Comacchio; mi si è aperto un mondo ecclesiale che non conoscevo e la difficile e ostacolata recezione dello stile conciliare. Al vivo, ho sperimentato così quanto andava dicendo anche don Alberto Dioli citando Newman: «Poiché c’è il Concilio è tempo di soffrire». Tuttavia, anche in quella ostilità, don Giuseppe non ha smesso di farsi «conca e canale della grazia», avrebbe detto don Calabria.
Andrea Zerbini
Un pezzetto della mia famiglia se n’era andato
Fin da piccoli, alcuni personaggi entrano nella nostra vita attraverso i racconti dei nostri famigliari. Non li hai mai conosciuti, ma già da tempo ne senti parlare e la tua immaginazione è attratta dalle loro storie.
Beppe era senz’altro una di queste persone. Lo incontrai per la prima volta cinque anni fa, su richiesta di mio zio Checco. Mi chiese di registrare alcuni suoi ricordi e pensieri, così andammo a Pove con telecamera e microfono e lo filmammo. Fu una lunga intervista. Ricordo che della sua vita, in prima battuta, non si capii granché. Troppo variegata e apparentemente contraddittoria: cosa c’entrava il Brasile con Comacchio, con Pove del Grappa e la fabbrica Riva Calzoni? Tornai una seconda volta per finire il lavoro, e poi, negli anni successivi, altre tre, quattro volte al massimo. La mia memoria è sempre stata deficitaria, ricordo poco e male, raramente episodi o battute, talvolta dei pensieri fatti in date circostanze.
Dopo averlo incontrato pensai: «Che forza travolgente deve aver avuto da giovane questo vecchio». Quando Beppe è morto ho sentito il bisogno di andare al suo funerale. Sono stato vicino alla bara mentre veniva coperta con la terra. Ho abbracciato Gaetano trattenendo le lacrime, poi ho pianto.
Non avevo mai conosciuto davvero Beppe Stoppiglia, ma sentivo che un pezzetto della mia famiglia se n’era andato.
Tommaso Monini
Quelle domeniche di sole
Quando cerco di tornare indietro ai miei primi ricordi, raccolgo piccoli frammenti di famiglia: mia madre che rassetta la casa, mio padre che torna dal lavoro, la nonna seduta al centro della stanza, ma soprattutto ricordo un’attesa. Era un’attesa felice, degli gli zii da Bologna. Erano una famiglia strana. Lo zio Giuseppe, fratello della mamma, ufficialmente sacerdote, ma per me quella parola non significava nulla. La zia Maria, sorella della mamma, professione sconosciuta, era bellissima. Ultimo Gaetano, che zio non era, ma solo per un dettaglio d’origine; anche lui ufficialmente sacerdote, che per noi bambini diventava giocoliere, cantastorie e pirata per una moneta che faceva da benda sull’occhio.
Avrei scoperto solo dopo molto tempo che quelli erano anni di battaglie. Che la loro vita era piena di coraggiose prese di posizione e lotte contro i propri fantasmi. Per me era solo una grande festa, perché gli zii di Bologna tornavano a casa.
Pochi, pochissimi anni dopo, mi ritrovo nella stessa stanza, ma lo zio non è più a Bologna. Ora lavora a Mestre e abita nell’appartamento sopra di noi. Tutte le sere, appena sceso dal treno, passa a salutare la nonna. Se stiamo ancora cenando, appoggia la borsa su una sedia e comincia a chiacchierare stando in piedi; finge di non mangiare, ma ruba pezzi di formaggio e noi fingiamo di non notarlo. Le sere mie preferite sono quando arriva un po’ più tardi, il tavolo è già sgombro e noi siamo già in salotto. Allora si siede in poltrona e la mia strada è libera. Libera di arrampicarmi, con le mie piccole braccia di bambina e guadagnarmi il mio posto privilegiato. Ascolto discorsi che non capisco, raggomitolata sul petto dello zio, che mi stringe con un braccio.
La bambina cresce. Si aprono le porte di casa e c’è un mondo nuovo tutto da scoprire e comprendere.
Comincio a capire che lo zio non è un uomo come gli altri e scopro che conosce tante persone, che è importante per un sacco di persone, un’altra dimensione che ancora non conosco.
Per me ci sono le passeggiate della domenica mattina. Quando non è in viaggio, dopo la messa celebrata in cucina per la nonna, andiamo a Bassano, solo io e lui; il giornale per lui, qualche figurina per me. Non so di cosa parlassero quella bambina e lo zio suo, ma nei miei ricordi sono solo domeniche di sole.
Un passo ancora e il mondo si fa più grande e complesso, anche per la bambina che bambina non è più.
Ma la casa degli zii è sempre là, con la porta aperta e unica condizione: non aver paura degli specchi. E sono serate lunghe, la zia Maria fa domande dirette che non lasciano scampo, lo zio incoraggia ma esige che le scoperte personali diventino una risorsa utile, Gaetano cerca di addolcire gli angoli. I confronti non sono sempre facili ma, in un mare in tempesta, la casa è un porto sempre pronto ad accogliere. Lì imparo ad ascoltare senza pregiudizio, comprendo che la fatica fa parte del viaggio.
Per molto tempo ho accompagnato lo zio tutte le volte che era possibile farlo. Non so quante volte l’ho ascoltato parlare in pubblico, che fosse dal pulpito o da un palco. Non so quante volte ho osservato le persone catturate dalle sue parole. Quante volte ho ammirato la sua capacità di dare la sua completa attenzione alla persona che aveva di fronte, sempre diversa, sempre ugualmente importante. Non so quante volte mi hanno detto che sono stata fortunata ad avere uno zio così. Lo ammetto; non solo perché è stato un oratore di rare capacità.
Non solo perché per tutta la mia vita ho avuto libero accesso a un uomo che è stato guida per molti. Non solo perché mi ha permesso di incontrare persone e idee che altrimenti non avrei mai avvicinato. Ma soprattutto perché, dalla mia posizione privilegiata, ho potuto vedere la fragilità dietro la forza, il silenzio dietro le parole, le emozioni dietro le grandi speculazioni razionali; è stato tifoso per me instancabile ma esigente, pronto a perdonare ogni caduta e a festeggiare ogni piccola vittoria; a volte incoraggiando rumorosamente, a volte rispettando, in silenzio, la mia libertà di sbagliare; ma, più di ogni altra cosa, sono stata fortunata per quelle domeniche di sole con lui, che restano un segreto solo mio.
Chiara Morosinotto