La mia famiglia
Fare chiesa con gli zingari
Ero in casa a Ferrara, aspettavo Cesare e Ghigo, due membri della comunità rom della provincia di Venezia. Qualche settimana prima mi aveva chiamato un pastore della chiesa valdese, informandomi che gli era pervenuta la richiesta della comunità evangelica rom di aderire alla chiesa valdese, ma lui li aveva orientati verso la chiesa battista. Mi sono chiesto in seguito i motivi che hanno spinto il collega a dare questo suggerimento e mi sono convinto che tra le motivazioni c’è il fatto che i battisti sono un po’ come i rom, con una loro identità, ma con una struttura semplice, pronta al cambiamento, un po’ come i campi rom che si spostano da un posto all’altro, ricreando sempre l’atmosfera di «casa».
Quel pomeriggio ero a casa da solo e avevo perso molto tempo a scrivere delle lettere per cui l’ora mi era scappata di mano, ero ancora in tuta e avevo pensato di rendermi un po’ più presentabile indossando un abito più consono al mio ruolo di pastore che riceve delle persone per la prima volta, ma proprio mentre stavo pensando cosa mettermi addosso, eccoli che arrivano, per cui non faccio a tempo a cambiarmi. Ghigo e Cesare sono elegantissimi, in giacca e cravatta. Quando li faccio entrare in casa, leghiamo subito, mi rendo conto che sono un po’ uno zingaro anch’io, anche se meno elegante. Infatti scopro che per i rom i napoletani come me sono considerati simili agli zingari, forse perché, come loro, molti dei miei conterranei sono costretti a vivere alla giornata, spesso accontentandosi di lavori precari e mal pagati e perché spesso sono sospettati di essere tutti malavitosi. Scopro in seguito che i miei ospiti conoscono molti cantanti popolari napoletani che ascoltano ad alto volume nelle loro auto, proprio come si fa a Napoli.
Chiesa, ovvero chiamato fuori da
Cesare nella Comunità svolge funzioni pastorali. Fin da bambino è cresciuto con il desiderio di occuparsi della sua gente, non solo praticamente, sostenendola e appoggiandola nella vita quotidiana, ma anche spiritualmente. Fin da piccolo ha letto la Bibbia con grande interesse e ora, che ricorda a memoria molti testi sia del Nuovo sia dell’Antico Testamento, mi fa tante domande e scorgo in lui un velo di delusione quando si rende conto che io ho la memoria corta e non ricordo molti testi biblici. Ho sempre avuto il problema di imparare le cose a memoria, e anche a scuola facevo una fatica immane quando dovevo apprendere una poesia e recitarla poi a memoria davanti alla classe.
Mi parlano della loro comunità, una famiglia allargata che vive in un campo rom, in parte in roulotte, in parte in case a un piano. Il papà, la mamma, nove figli e figlie e una carovana di nipotini. Non tutti sono evangelici, ma le famiglie che hanno abbracciato la fede si incontrano per pregare e per ascoltare la predicazione dell’Evangelo. Mi stupisco che il gruppo di credenti non si incontri regolarmente, «quando non siamo in giro» dice Ghigo, «allora convochiamo un incontro e facciamo chiesa». Questa frase lavora dentro di me in profondità e mi fa ricordare come noi abbiamo stravolto il concetto di chiesa. Abbiamo trasformato un evento in una istituzione. Quando pensiamo alla chiesa ci viene subito in mente una struttura fisica, un edificio, un’organizzazione, mentre nel Nuovo Testamento la Chiesa sono le persone. Le persone che sono chiamate da Dio a servirlo. Etimologicamente il termine greco ekklesia, da cui deriva il nostro termine italiano Chiesa, significa «chiamato fuori da». Storicamente il termine aveva un senso politico, non religioso, ad Atene per esempio l’ekklesia era l’assemblea dei cittadini che veniva convocata fuori dal centro abitato per discutere gli affari della città. La chiesa è perciò in primo luogo un evento, e non solo una struttura. I miei amici rom questo lo avevano capito bene e perciò si autoconvocavano a costituire la Chiesa.
Il nostro popolo, disperso e perseguitato
Il nostro incontro dura un’oretta, ci salutiamo con la promessa di rivederci presto.
Era il periodo di Natale e quindi accettai con piacere l’invito a trascorrere il giorno di Natale con loro nel campo. Arrivo al campo la mattina per le 10. Conosco tutta la famiglia allargata, ma faccio fatica a ricordare tutti i nomi. La mamma, o forse meglio la matriarca, era una bella signora sulla settantina, sorridente; quando mi ha abbracciato ho sentito la forza di una donna che nella vita ha lottato e continua a lottare. Il diabete l’aveva resa quasi cieca, ma i suoi occhi chiari mi guardavano intensamente, come a voler scorgere nei miei se si poteva fidare: in fondo ero sempre un Gagè e dei Gagè, le era stato insegnato fin da bambina, è meglio non fidarsi.
Il papà, un uomo apparentemente austero, esce dalla roulotte, mi guarda fisso negli occhi e dice, rivolgendosi sia a Cesare che a me: «se fossi un Gagè direi a mio figlio, i tuoi amici sono anche i miei amici, ma siccome sono un rom ti dico (rivolgendosi a me): gli amici di mio figlio, sono figli miei, considerati come parte della mia famiglia, sia oggi, sia in futuro».
Ho partecipato al loro culto, che per l’occasione, vista la mia presenza, era bilingue, italiano e romanès. Il loro modo di cantare era molto simile a quello napoletano, uno stile che io chiamo «melodico trascinato». Ma le loro preghiere erano piene di pathos. Il sermone semplice, ma incisivo, era molto diretto e spesso durante la predicazione la frase ricorrente «il nostro popolo», mi faceva venire in mente il popolo d’Israele, che ha subito nei secoli persecuzioni, tentativi di assimilazione forzata, è stato disperso in ogni angolo della Terra, eppure aveva radicata la consapevolezza di essere «un popolo».
Sono tornato tante volte nel campo rom dei miei amici, e ogni volta mi sono sentito parte della loro famiglia. Ora che vivo in un’altra zona d’Italia e quindi ho meno possibilità di visitarli, a volte mi sorprendo a pensare a loro, alle conversazioni che abbiamo avuto, ai bambini che tutte le volte che mi vedevano mi facevano la stessa festa che fanno a chi di loro è costretto ad allontanarsi per motivo di lavoro e poi torna a casa per riprendere le vecchie abitudini e per passare l’inverno insieme alla sua famiglia.
Carmine Bianchi
pastore battista
responsabile dipartimento evangelizzazione
Unione Cristiana evangelica battista