La costruzione di Fortezza Europa
Di muro in muro
Sospesi sul confine del nostro benessere
Alcune immagini hanno il potere di descrivere il senso delle cose con una forza che alla parola non è concessa. In questo senso, per quanto riguarda l’orrore della guerra con le sue trincee, gli steccati, i muri e quella morte del senso che pervade tutto, ho sempre ritenuto insuperabile in quanto a realismo la famosa scena di Apocalypse now, nella quale i personaggi tragici e clowneschi di Francis Ford Coppola fanno surf sotto le bombe. Un’affermazione, mi rendo conto, a prima vista paradossale, che restituisce la follia del conflitto e delle armi solamente mettendola in scena esattamente come essa si dà e nel modo in cui accade.
È il metodo di Beckett, per cui se si vuole mostrare come la nostra esistenza si giochi per intero dentro la guerra, anche se non ne sentiamo il rumore e se è così lontana dal nostro sguardo e dalla nostra esperienza diretta da dimenticarcene, è necessario rimettere ogni gesto, anche il più domestico o ludico come in questo caso, là dove accade. E cioè in uno scenario bellico. Solo così è possibile comprendere cosa sia la guerra e come essa, oggi, determini l’esistenza di tutti, provvedendo privilegi per alcuni e morte per altri. Anche qui, anche in una qualsiasi delle allegre capitali europee nel periodo dei saldi. È solo in questa accezione che parlo qui di realismo.
Da questo punto di vista e per spiegarmi, per esempio ho sempre trovato poco realistici, per via di una violenza talmente esibita nella sua finzione da risultare caricaturale, i dieci minuti iniziali dello sbarco in Normandia in Salvate il soldato Ryan, inseriti non a caso in un plot narrativo buonista, nel quale la guerra scompare infine come in un vaso. In perfetto stile spielberghiano peraltro. Altrimenti la realtà non è intelligibile, diventa impossibile agganciarne il senso. Altrimenti davvero non è possibile comprendere Melilla, il livello di violenza invisibile che l’immagine contiene. Fare surf sotto le bombe, giocare a golf dove altri muoiono. O dove rimangono come sospesi, prigionieri di uno spazio senza tempo. Esattamente come nell’opera di Adrian Paci, in cui i migranti sono in fila per approdare in nessun luogo, perché per loro non c’è alcuna destinazione possibile (Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea, 2007). Così l’unico posto buono per un migrante può essere dietro il muro, oltre il confine, o persino nel suo spessore, come a Melilla o in uno qualsiasi dei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) dislocati lungo le frontiere di Fortezza Europa. Dove è possibile distinguere e commerciare in migranti.
Criteri di selezione migranti
Perché se un tempo i negrieri sceglievano tra gli schiavi quelli che presentavano la dentatura migliore o che avessero una corporatura abbastanza resistente per essere impiegati nei campi di cotone, a quanto sembra oggi i denti hanno lasciato il posto al livello di scolarizzazione e i campi di cotone al mercato del lavoro (Rediker, 2012). Criteri differenti, ma identica sostanza delle cose, per selezionare i più adatti e lasciar morire gli altri (è noto che Merkel abbia aperto le porte della Germania solamente ai profughi siriani, che possono essere considerati un’ottima risorsa professionale, trattandosi di una comunità di professionisti – medici, avvocati, ingegneri -, più che di manodopera scarsamente qualificata).
Muri e campi di sterminio
Per tutti gli altri, la politica di Fortezza Europa, di cui Frontex è il braccio armato, garantisce invece la «disumanità legalizzata», secondo la formula che Anders ebbe a utilizzare per definire i campi di sterminio nazisti. Anche l’Europa contemporanea, infatti, ha il suo campo diàsterminio. Nel Mediterraneo, secondo il blog Fortresse Europe, dal 1988 sono annegate 19.142 vite umane. Il Mediterraneo, un tempo culla della civiltà occidentale, ne rappresenta oggi la frontiera principale, il muro invalicabile. Muri visibili per i quali la sensibilità occidentale finge indignazione solo di fronte alla rappresentazione patetica della morte del piccolo Aylan, offerta dai media per una catarsi pelosa e generalizzata. Muri invisibili che sorgono ovunque e danno vita a fili spinati culturali dietro i quali l’UE, e più in generale l’Occidente ricco, stanno puntellando la propria identità imperialista. E se in questa sede non c’è abbastanza tempo per prendere in esame i muri invisibili, anche tenere conto di quelli a portata di sguardo è compito assai difficile. Provo a ricordarne i più importanti, oltre a quello già descritto di Melilla: 3000 km. tra Usa e Messico lungo il Rio Grande; il muro eretto da Poroshenko al confine russo contro gli ucraini russi da liquidare; i muri in Arabia Saudita e in Iraq. Infine, i muri urbani attorno agli slum disseminati lungo il perimetro delle metropoli di tutto il mondo, per separare gli alieni dagli esseri umani (una interessante rappresentazione di queste nuove forme di alienazione la si può trovare nel film District 9 di N. Blomkamp). Infine il muro israeliano in Palestina, che ho lasciato per ultimo, perché l’unico muro costruito sul suolo straniero: 750 km in territorio palestinese, sul quale la Corte di Giustizia dell’Aja si è già espressa per lo smantellamento, per porre fine a un regime di apartheid che rinchiude più di tre milioni di persone. Muri la cui complessa architettura concorre a edificare il sistema di rappresentazioni tautologico morali con cui ogni società tende a legittimare e imbellettare la propria crudeltà: la violenza più o meno amministrata esercitata sugli ultimi o sui nemici della società, siano essi interni o esterni ai propri confini culturali. Un tempo teatrale, oggi tale crudeltà si è risolta nel pudore amministrativo con cui violenza e morte vengono gestite e sottratte al gioco delle passioni (Dal Lago, 2014). I muri sono solo uno dei modi di questa sottrazione.
Eppure la presenza di un muro dovrebbe almeno consentirci, come nel caso della fotografia di Melilla, di vedere in negativo ciò che il muro rivela proprio nella misura in cui nasconde all’occhio: la presenza di un conflitto, il rumore sordo delle guerre invisibili che l’Europa combatte per garantirsi i propri privilegi.
Marco Opipari, ricercatore