La Costituzione e il governo del settantesimo
Settant’anni di Costituzione
Il 2018 è l’anno del settantesimo anniversario della Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Le ragioni per onorare questa ricorrenza sono almeno due.
La prima è semplice, forse banale. Si tratta di ricordare un nuovo inizio, la rinascita su basi dichiaratamente e inequivocabilmente alternative di una comunità nazionale già travolta dal fascismo e duramente provata dal secondo conflitto mondiale e dall’occupazione nazista.
A prescindere da qualunque visione o lettura che si voglia eventualmente accreditare sulle reali forze motrici di quella fase storica e dei protagonisti sociali, politici e culturali che l’hanno animata, non si può negare che la Costituzione del ’48 ne rappresenta un frutto particolarmente alto, nei contenuti e nei metodi: sia perché essa, affermando il primato della persona e il principio di eguaglianza sostanziale, identificava da subito, e identifica tuttora, il nucleo duro dei principi attorno ai quali lo Stato democratico doveva, e deve sempre, costruirsi e custodirsi; sia perché tali principi sono stati elaborati mediante una ricca e autorevole ripresa del confronto di matrice parlamentare, del quale l’Assemblea Costituente è stata il rilancio.
Ricordare la Costituzione del ’48, quindi, equivale, innanzitutto, a riconoscersi in quei principi e in quel confronto; e a sentirsi, così, cittadini italiani in quanto partecipi di quello specifico disegno di comunità che si è avviato, sorprendentemente, in un momento particolarmente difficile e che anche oggi non può rischiare di perdere le sue più autentiche e originarie ambizioni.
C’è poi un secondo motivo per festeggiare questo importante anniversario. Si tratta di evidenziare che il messaggio costituzionale è ancora molto concreto e «situato», a dispetto, viceversa, di quanto possa lasciar intendere il conto del tempo passato.
Perché anche oggi la Costituzione conserva intatta la sua risorsa più importante, il suo peculiare carattere giuridico, la sua capacità, cioè, di esprimere precetti idonei a guidare e vincolare in ogni contesto tutti i soggetti della comunità. È a quei precetti, infatti, che tutti devono rispondere; ed è a quei precetti che si può, di conseguenza, guardare per trovare soluzione a ogni questione, razionalizzandone la dinamica, selezionando le opzioni disponibili e conducendo, così, gli attori del contrasto a un comune contesto di comunicazione reciproca. In fondo, la prospettiva più profonda del pluralismo costituzionale sta tutta nell’intrinseca vocazione pluralistica dell’attività di lettura e di applicazione delle norme costituzionali, di operazioni che tutti sono chiamati a compiere.
Da questo punto di vista, la Costituzione ci ricorda sempre la grande rivoluzione che essa ha introdotto nel modo di concepire e di attuare il diritto come progetto collettivo: una modalità aperta, che responsabilizza in massimo grado l’intera comunità repubblicana, e che consente di rendere consapevole anche il cittadino meno avvezzo ai tecnicismi dell’uomo di legge, perché il primo e fondamentale riconoscimento, pur sempre normativo, che la Costituzione richiede ai soggetti cui si riferisce corrisponde all’assunzione di un semplice dovere generale, quello di attribuirle un’irrinunciabile funzione maieutica.
Su questo piano la Costituzione si dimostra per ciò che di essa è potenzialmente più diffuso e penetrante: per il suo fungere da grammatica e sintassi di un’agenda pubblica che tende ripetutamente a farsi pericolosamente unilaterale e polarizzante; per il suo porsi come lente condivisa per l’analisi di dati e di fenomeni (istituzionali, economici, scientifici, religiosi, culturali…) che, anche se non vi sono esplicitamente contemplati, possono pur sempre essere con essa affrontati; per il suo rivelarsi fonte costante di istanze, diritti e libertà che non possono essere dimenticati o travolti, e che esigono, viceversa, di essere considerati e garantiti espressamente, anche quando vi siano altre incombenti e concorrenti sollecitazioni.
Terza Repubblica?
Se tutto questo è vero, non c’è dubbio che la Costituzione, specialmente se intesa nel senso da ultimo illustrato, non può che essere il faro anche della vita politica nazionale, tanto più in questo particolare momento, nel quale essa rappresenta senz’altro il migliore compagno di viaggio.
Dopo la tornata elettorale di marzo, infatti, le carte si sono rimescolate così tanto che qualcuno ipotizza che ci si trovi dinanzi a una fase di nuova trasformazione della cornice istituzionale italiana; e che dalla «Seconda Repubblica», quella nata all’inizio degli anni novanta, da Tangentopoli e dalla crisi di un’intera classe dirigente e di un correlato sistema di partiti, si stia transitando a grandi falcate verso una «Terza Repubblica», quella che, animata da forze inedite, pare veicolare verso orizzonti inesplorati l’ulteriore senso di rigetto dei cittadini per un circuito rappresentativo sempre più inefficiente e delegittimato.
Da parte di molti osservatori si individua lo snodo essenziale di questo passaggio nell’atto di formazione del governo, necessario spunto d’esordio di una legislatura che si apre incerta, nel segno di una vistosa e ambigua frammentazione del consenso elettorale e che va cercando, a piccoli passi, una maggioranza parlamentare capace di sorreggere le istituzioni e di interpretare l’istanza di cambiamento manifestata dagli elettori. L’attesa, in proposito, è carica di aspettative, come se lo scenario fosse del tutto sconosciuto.
Il punto è che proprio i settant’anni della Costituzione ci dimostrano che questo panorama non è per nulla inedito; che anche nel ’48, all’originario debutto del sistema, non erano disponibili energie maggioritarie particolarmente qualificate, e che nonostante ciò la Repubblica ha trovato la sua strada; che, in difetto di modifica della Carta e della forma di governo che essa ancora presidia, non c’è mai stata, giuridicamente, una «Prima» e una «Seconda» Repubblica; e che, pertanto, non ve ne sarà nemmeno una «Terza». Ciò che è dato aspettarsi non è altro che una delle tante e variabili ricomposizioni che – complice il contenuto della disciplina elettorale – la fattispecie aperta (così si dice, tecnicamente) della nostra formula parlamentare può accogliere e far funzionare nel rispetto delle prerogative che sono assegnate a ciascuno degli organi costituzionali.
È chiaro, allora, che il nuovo assetto, se funzionerà, avrà successo soltanto a una condizione: che i partiti si impegnino per far fruttare al meglio, se del caso reinventandolo, l’equilibrio dei poteri costituzionalmente previsto, e per tradurre in modo effettivo nella complessità della realtà presente gli indirizzi di fondo che sono stati impressi nel DNA del Paese sin dal ’48 e che si sono brevemente ricordati poc’anzi.
Il presupposto, evidentemente, è che i partiti – nuovi o vecchi che siano – riconoscano la permanente legittimazione del comune riferimento costituzionale, e che, di conseguenza, ne accettino, come matrice ineludibile della loro stessa missione, l’orizzonte necessariamente critico, la progettualità collettiva, il metodo del dialogo concertato, il senso emancipante delle direttrici democratiche e la vocazione pluralistica.
Avanti o indietro?
Sono questi gli ingredienti fondamentali della ricetta e del suo fruttuoso e periodico rifacimento. Ed è qui purtroppo che va individuata, a ben vedere, la radice di ogni timore e di ogni correlata incertezza: perché, per motivazioni di volta in volta diverse, i partiti che ora dominano la scena non hanno più, o non hanno mai avuto, un rapporto così stretto con gli ideali costituenti e con i principi che questi hanno generato, avendo maturato, anzi, il loro sostegno con argomenti apertamente extra-costituzionali, e avendo evocato più volte obiettivi e modalità d’azione – da coltivarsi, peraltro, con rivendicata e assoluta «coerenza» – che non sono per nulla sinergici
con la «macchina» che nel ’48 si è inteso costruire. Una «macchina» che, per inciso, questi stessi partiti hanno dimostrato, nel 2016, in coincidenza con il noto referendum costituzionale, di voler difendere in modo apparentemente accanito, trascinando con essi larghe fette dell’opinione pubblica, ma solo per il raggiungimento di finalità politiche assai contingenti. La Costituzione, di fatto, è già stata «marginalizzata» dalle forze politiche.
È ben vero, dunque, che il governo del settantesimo ha un significato simbolico: può essere un grande passo in avanti, un rilancio del metodo e dei fondamenti della Repubblica da parte di chi si va affrancando espressamente, anche per ragioni generazionali, dalle tradizioni culturali e politiche delle forze storiche che l’hanno scritta; ma può essere anche un grande passo all’indietro, il frutto di un processo di metabolizzazione ormai conclamata dell’allontanamento della classe politica e della parte più attiva della nostra società dalle coordinate che l’Assemblea Costituente aveva posto per il nuovo Stato democratico.
Nel primo caso potremo salutare con ottimismo il passaggio riuscito di un testimone glorioso; nel secondo, invece, potremo rimpiangere di non aver colto per tempo i segnali di una crisi che, già all’esordio della cosiddetta «Seconda Repubblica», si preannunciava all’insegna del processo al passato e dell’affermazione programmatica di una logica, tanto inarrestabile quanto artificiosa e materialmente improduttiva, di pura prevalenza elettorale.