La città che accoglie
Prerequisito di solidarietà sociale, politica e religiosa
Nelle mura cittadine di un tempo, le porte, l’accoglienza
Intorno al 1420, nella Firenze dei (banchieri) Medici, fu commissionato a Filippo Brunelleschi «Lo Spedale degli Innocenti» – il primo brefotrofio d’Europa – che tutt’ora occupa un lato della piazza di Santissima Annunziata. Le spese per la costruzione furono elargite dalla Corporazione dell’Arte della Seta che volle quell’opera a ricordo dell’episodio biblico della Strage degli Innocenti. L’istituzione de Lo Spedale, si legge nei documenti, venne creata nell’ambito di un vasto programma promosso dall’oligarchia al potere per migliorare la vita della cittadinanza, assicurando una migliore assistenza sociale e sanitaria. Lo Spedale fu terminato nel 1445.
«Nel 1448, a tre anni dall’apertura, i registri riportavano 260 piccoli ospiti; nel 1560 erano diventati 1320 e nel 1681 più di tremila. Per garantire un sufficiente allattamento, gli spedalinghi ricorrevano spesso alla prestazione di donne di campagna, che ricevevano i bambini in fasce in balia. Già nel 1577 venne predisposto l’allattamento artificiale tramite l’acquisto di una vacca dalla Romagna, che produceva quattro fiaschi di latte al giorno, somministrato ai bambini tramite certi bicchierini fatti apposta col pippio» (da Wikipedia).
Questo accadeva più di 500 anni fa in una Firenze dominata dai Medici e a opera di una corporazione medievale.
Ora, in epoca moderna, le cose sono diverse. Cito, alla lettera, un passo di un recentissimo articolo di Riccardo Petrella(1): il sistema capitalistico «che ha vinto» (come affermavano dopo la caduta dell’Urss), ha desertificato la civitas, devitalizzato le collettività locali rendendole succubi del mercato di capitali privati internazionali, ha mercificato e privatizzato le città. Le banche e i megacentri commerciali hanno «messo le mani sulla città».
La città un tempo era circondata da mura per difendere gli esseri umani da una natura minacciosa e ostile; erano quelle mura ogni tanto bucate da porte che accoglievano il diverso, il pellegrino che veniva da altri luoghi a visitare la città o a vendere là i suoi prodotti o a ricevere accoglienza e protezione. E dentro di essa una comunità di uomini stabiliva le regole della convivenza, costruiva luoghi comuni, elevava simboli. L’Europa, ci ricorda Marramao(2), era questo spazio pluriverso: un mosaico di dissonanze, di esperienze talora eterogenee o addirittura conflittuali. E tuttavia queste differenze non diedero mai vita a «politiche dell’identità» come oggi avviene: l’aria della città rendeva liberi, recita un vecchio detto medievale.
Un ideale di città
«La meta del cammino umano – afferma Carlo Maria Martini(3) – non è né un giardino né la campagna, per quanto fertile e attraente, ma la città. È la città descritta nell’Apocalisse, con dodici porte, lunga e larga dodicimila stadi (più di duemila chilometri); una città, dunque, in cui sono chiamati ad abitare tutti i popoli della terra». Essa – la città – non era/è dunque il luogo dal quale fuggire a causa dei suoi conflitti, ma il luogo dove imparare a vivere: la città dello shalom. Dunque, prosegue, Martini, una città ideale, splendente, luminosa, accogliente, aperta, capace di ospitalità, dove si attua finalmente il sogno dell’umanità. Non c’è bisogno di pensare a una città ideale, ma almeno a un ideale di città, questo sì. L’antitesi della città biblica non è la campagna, ma il deserto che tutto divora e tutto distrugge: o il deserto o la città. Tutta la storia della Gerusalemme biblica, dice ancora Martini, è una storia del conflitto tra il deserto che la minaccia e l’ideale di pace che la muove e la sostiene da tremila anni perché non ci si stanchi di ricercare lo shalom anche in mezzo a tutte le contraddizioni che sembrerebbero mostrare l’impossibilità della pace.
Il deserto ha ostruito le piazze
Oggi il deserto sembra aver vinto la sua battaglia contro la città poiché ha dissolto le relazioni, l’ascolto, il dialogo, l’antico patto di solidarietà delle e nelle città. Sono state spazzate vie le piazze, l’agora, dove la gente scambiava doni intellettuali e morali; si sono blindate le porte dell’ospitalità e della giustizia, si sono erette barricate, alzati muri e barriere, recintati beni comuni, limitati e controllati gli accessi. Si è perso l’ideale di città. L’apparire della modernizzazione, nelle sue forme più dissacratorie e profane, ha fatto velo alla restaurazioneàche avanzava dietro di/e con essa. La gabbia di acciaio dei rapporti oggettivi nei cui confronti tu non puoi fare nulla(4), si è costruita intorno alle parole d’ordine di: modernizzare, velocizzare, competere, calcolare, fare i conti con, disneylandizzare, eventizzare, massimizzare i piaceri.
L’evento, ad esempio, ci viene contrabbandato come qualcosa di radicalmente nuovo, mentre esso, sostiene Maurizio Ferraris(5) «è soltanto la veste che prendono riti antichi come le feste religiose, i tornei, le processioni, le novene, i pellegrinaggi, che diventano maratone urbane, concerti rock, gare automobilistiche, partite di calcio o adunate dei Papa boys». Ma non è la stessa cosa. Non c’è più alcuna esperienza collettiva da celebrare da parte di nessuna comunità. L’evento moderno è prodotto forse proprio dall’impoverimento dell’esperienza da parte di una comunità indistinta quanto vaga che chiede la propria autolegittimazione «camminando sui carboni ardenti o correndo per le vie di Pamplona cercando di non farsi incornare dal toro o organizzando un rave party o un tea party». Sono queste le forme che il pensiero della trascendenza assume nell’età chiamata post-moderna.
Nel libro sopra citato, Carlo Maria Martini si pone due domande: Gesù ha capito la città (di Gerusalemme)? La città si è sentita capita da Gesù?
Nel suo ingresso in Gerusalemme, Gesù, pur conoscendo le ostilità della città, è «insieme benevolo e conciliante». E la città lo accoglie: «Non temere, figlia di Sion» dice l’Evangelista commentando l’ingresso di Gesù, «Ecco il tuo re viene, seduto sopra un puledro d’asina». L’espressione «figlia di Sion», nella sua tenerezza, designa la città come una donna, una figlia da amare. E Gesù risponde: «Non temere figlia di Sion, perché anch’io non ti temo e non accetto su di te il giudizio di città estranea, invivibile. Io ti amo e vengo da te con amore; non temere».
Tutti coloro che acclamano Gesù, al suo ingresso in città, lo fanno a nome della città che abitavano, che amavano e alla quale si sentivano attaccati da una storia millenaria. Era dunque, commenta Martini, l’anima di un popolo quella che andava incontro a Cristo. La gente di Gerusalemme agitava i rami di palma e d’ulivo davanti a Gesù. Gerusalemme è, dunque, la città della pace, la città in pace, la città dello shalom: «domandate pace per Gerusalemme», «sia pace a coloro che ti amano», «sia pace sulle tue mura», «su di te sia pace».
Enzo Scandurra
urbanista, ordinario di «Ingegneria del territorio»
facoltà di ingegneria,
università «La Sapienza», Roma
Note: R. Petrella, Una comunità UE per l’Acqua, articolo su Il Manifesto del 16 dicembre 2011, p. 15; 2. G. Marramao, La passione del presente, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 189; 3. C. Maria Martini, Verso Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 2002; 4. L’espressione è di M. Tronti, da: Dall’estremo possibile, Roma, Ediesse, 2011; 5. M. Ferraris, La società dell’evento, articolo sul quotidiano La Repubblica del 4 dicembre 2010, p. 46.