Kenya

di Ramigni Luca

Affacciato sull’Oceano Indiano, il Kenya è una repubblica presidenziale indipendente dal 1963. 583 mila kmq la superficie, oltre 40 milioni gli abitanti, di cui il 50% vive sotto la soglia della povertà. Il Pil procapite è di 570 euro, la mortalità infantile prima dei 5 anni è di 121 bambini ogni 1000 nati.

Posizione geografica

Incastonato tra Sudan, Etiopia, Somalia, Uganda, Tanzania e l’oceano Indiano, il Kenya si trova alla convergenza di due linee: la Rift Valley, che attraversa il territorio del Kenya con il suo ramo orientale, e l’equatore, che taglia il paese in due. Le alte terre del Kenya, gli Highlands, hanno assunto i lineamenti attuali in seguito alla formazione della Rift Valley. Nella «grande frattura» si trovano numerosi avvallamenti, dove spesso ci sono laghi di natura vulcanica quali il Baringo, il Nakuru, il Magadi. Alla stessa attività vulcanica si collega la nascita dei grandi «coni» che dominano gli Highlands, tra cui svetta il Monte Kenya (5.199 m), un gigantesco pilastro emerso all’epoca in cui si è formata la frattura della Rift Valley. Nell’interno l’altopiano scende rapidamente alla conca del Lago Vittoria; sul lato orientale invece esso si abbassa, con una serie di terrazze, verso la pianura costiera. La costa è bassa, frammentata da isolotti e lagune, quindi poco praticabile, e talora orlata da lunghe barriere coralline. La parte settentrionale del Paese infine, ha un’altitudine media di circa 800 m ed è dominata da un tipico paesaggio savanico. La zona che gode, forse, del clima migliore sono gli altipiani centrali e la Rift Valley in quanto le temperature oscillano tra i 10°C e i 28°C e le precipitazioni si concentrano in due periodi: da marzo a giugno, le cosiddette «lunghe piogge» (masika), e da ottobre a fineànovembre quando si parla di «piogge brevi» (mvuli) dette anche «piogge del miglio».

Popolazioni

Oggi le popolazioni rappresentative sono i Masai e i Kikuyu. Popoli pastorali i primi, agricoltori i secondi, sono stati sempre tra loro divisi, contendendosi le fertili alte terre. Tra i due gruppi ha avuto la meglio, soprattutto in epoca recente, quello dei Kikuyu, che via via hanno ricacciato i Masai nelle zone steppiche, imponendosi e prosperando nelle terre agricole e produttive grazie anche alla colonizzazione britannica. La costruzione della ferrovia attivò ulteriormente l’economia della regione ed emarginò in modo definitivo i Masai, un popolo che ancor oggi è rimasto ancorato ai suoi modi di vita originari, e insensibile a ogni richiamo di vita moderna. I Kikuyu per contro si fecero gli interpreti della modernizzazione del Paese e della stessa indipendenza. Essi costituiscono ancor oggi il gruppo più numeroso e più rappresentativo del Kenya, che però ospita nel territorio un gran numero di gruppi tribali diversi.

Vicende politiche

L’etnia kikuyu è stata protagonista dell’indipendenza dal Regno Unito. Infatti il contemporaneo insediamento di coloni bianchi e la confisca delle terre dei nativi (in particolare delle tribù kikuyu) determinò un grave turbamento nella vita del Paese; turbamento che assunse aspetti più acuti dopo la seconda guerra mondiale, sotto la guida di Jomo Kenyatta, presidente della Kenya African National Union (KANU), che raccolse grandi consensi divenendo leader autorevole del nazionalismo keniota. Tra il 1952 e il 1956 il movimento indipendentista armato dei Mau-mau portò la Gran Bretagna a proclamare lo stato d’emergenza e contemporaneamente ad accelerare l’introduzione di riforme politico-costituzionali. Il 12 dicembre 1963 il Kenya raggiunse l’indipendenza diventando una Repubblica presidenziale, pur restando membro del Commonwealth. Kenyatta venne eletto presidente della Repubblica e capo del governo. Sciolte le altre formazioni politiche, nel 1969 instaurò di fatto il monopartitismo e venne sempre rieletto plebiscitariamente fino alla sua morte, avvenuta nel 1978.

Il successore designato, Daniel Arap Moi, instaurò una politica di oppressione che, in particolare dal 1986, accrebbe le tensioni socio-politiche e quelle interetniche. Solo nel dicembre 1991, a seguito delle sempre crescenti pressioni interne e internazionali, l’Assemblea straordinaria della KANU approvò un documento che legalizzava i partiti di opposizione, sancendo il ritorno al pluralismo politico. Soltanto nelle elezioni presidenziali svoltesi alla fine del 2002 Moi, dopo 24 anni di governo, non si presentò come candidato e l’opposizione portò il proprio candidato, l’economista Mwai Kibaki, a diventare il terzo presidente del Kenya. Nonostante le promesse elettorali, il nuovo presidente non riuscì a migliorare le condizioni economiche e politiche del Paese. Nel 2010, attraverso un referendum, è stata approvata la nuova Costituzione che, tra le altre, comprende alcune importanti modifiche:àdecentralizzazione del potere e della gestione delle risorse per infrastrutture e sanità, ricerca dell’equiparità tra i generi nella partecipazione politica e sociale obbligando alla presenza di almeno un terzo per genere, diminuzione dei poteri del presidente suddividendo di fatto il potere in legislativo, esecutivo e amministrativo (giudiziario), obbligo e gratuità dell’istruzione primaria, obbligo del padre di pagare gli alimenti per la crescita dei figli.

Io credo che questo referendum abbia sancito la voglia di cambiamento nel popolo keniota. Un popolo stanco della corruzione dilagante e dell’iniqua spartizione delle ricchezze. Un paese di quasi 40 milioni di abitanti con una speranza di vita di 55 anni e un PIL pro capite di 779,91dollari. Allo stesso tempo ritengo che la strada sia ancora lunga, in quanto in Kenya ci sono ancora divisioni tribali.

Economia

Il settore agricolo presenta ancora il tipico dualismo di derivazione coloniale: da un lato vi è l’agricoltura di sussistenza, che occupa la gran parte della popolazione contadina ma rimane poco redditizia, dall’altro l’agricoltura di piantagione, d’impostazione commerciale, altamente produttiva e avviata con successo dai farmers inglesi e sudafricani grazie alle favorevoli condizioni ambientali delle alte terre keniote. L’industria dipende dal capitale straniero, che ha introdotto elementi speculativi tipicamente coloniali. La stessa indubbia, rilevante crescita del prodotto nazionale è andata in pratica ad arricchire da un lato le grandi società statunitensi ed europee, da cui dipendono gli investimenti operanti nel Paese, dall’altro una ristretta fascia di già prosperi imprenditori kenioti. Ne è derivato un accresciuto benessere di pochi, pagato con un deficit fortissimo della bilancia commerciale, aggravato dagli enormi rincari petroliferi in quanto il Kenya dipende ampiamente dalle importazioni per il proprio fabbisogno energetico. L’inflazione contribuisce a rendere sempre più precarie le condizioni di vita di gran parte della popolazione, mentre l’altissima spinta demografica, non accompagnata da un’adeguata espansione del mercato del lavoro, ha reso gravissimi i fenomeni della disoccupazione e della sottoccupazione.

Voglio concludere soffermandomi su ciò che fa muovere il Kenya e, molto spesso, ogni paese: la donna! Io ho sempre pensato sia un essere superiore, ne ho avuto la certezza quando ho visto mia moglie Laura partorire e poi la conferma quotidiana in Kenya. Donne che mandano avanti la famiglia, che decidono di avere un figlio per essere riconosciute dalla comunità (donna = madre) anche se preferiscono stare da sole, donne che, pur battute e violentate, non cedono al rancore, donne come Wangari Mathaai, prima donna africana premio Nobel per la pace, che lottano per la giustizia senza paura, donne che risparmiano per mandare a scuola i figli perché sanno quanto l’educazione sia importante… Per questo abbiamo bisogno di donne che guidino i nostri paesi verso la vita.

Luca Ramigni
volontario in Kenya dal 2004 al 2009
al St. Martin CSA di Nyahururu