In poche parole

di Monini Francesco

Nell’ultima redazione di Madrugada mi sono lanciato in uno sperticato elogio della brevità. «Non c’è quasi nulla che non possa essere scritto con la metà delle righe usate nella prima stesura». «E con ogni probabilità, la seconda stesura sarà migliore della prima». Lo sosteneva anche un grande autore, su cui non mi soffermerò per rispetto al mio credo. Brevità, chiarezza, precisione e obbiettività – non una, ma tutte e quante insieme – sarebbero anche le regole auree del giornalismo. Per verificarne il cattivo stato di salute, basta accendere la tivù o aprire un qualche giornale.

Per cui, ho deciso, anche questo mio diario sarà da oggi ancora più minimo. Me ne sono convinto, della brevità intendo, gustando le ultime, brevi e meravigliose opere di Mario Rigoni Stern. Io le tengo sul comodino, le leggo e le rileggo, e sento che la brevità da lui scelta ha eliminato ogni orpello, ogni vanità. Ha dissolto tutte le incrostazioni che abbiamo depositato sulle cose, sulle persone, sulle emozioni.

Ma breve non c’entra nulla con veloce. Veloce, lo sanno tutti, è l’imperativo categorico del nostro tempo. Della modernità come della postmodernità, dei futuristi come dei nuovi politici del XXI secolo.

Il Presidente del Consiglio in carica, impegnato nell’ennesima riforma del mercato del lavoro, si sveglia prestissimo (come tutti i Grandi Uomini si presume, ma sicuramente come Giulio Andreotti) e, sentite un po’: alle 8 incontraài Sindacati, alle 9 la Confindustria, e alle 10? Alle 10 ha un altro impegno.

Il «tempo per l’ascolto» – e non ci può essere ascolto se non mi fermo ad ascoltarti – è un ingrediente non eliminabile di quella strana cosa che continuiamo a chiamare «democrazia». Certo, devono esserci anche «le regole» (le regole democratiche, appunto), ma se eliminiamo lascolto dell’altro (e sopprimiamo il tempo per l’ascolto), se aboliamo il diritto alla critica e al dissenso, allora la democrazia è già in liquidazione. Con le orecchie tappate e gli occhi fissi al nostro unico leader e protettore, invece di procedere verso un futuro sempre più smart e sempre più fast, potrebbe capitarci una brutta avventura. Di trovarci catapultati, e senza preavviso, nel populismo accattone dei ben poco formidabili Anni Trenta.

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Tutto il mondo ne parla, è in cima alle classifiche dei libri più venduti in tutto il mondo. Lo sto leggendo (piano piano) e lo consiglio anche a chi, come me, in economia non è il primo della classe. Il Capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty (qualcuno più competente di me lo recensirà per questa rivista) è un volumone di 970 pagine (più generosi allegati) che abbraccia diversi secoli e qui non sembra c’entrare con il mio «elogio alla brevità», non fosse per una trentina di grafici, semplici semplici, e assolutamente impressionanti. Descrivono meglio di ogni discorso il crescere esponenziale della disuguaglianza negli stessi «paesi industrializzati». Un solo dato: i miliardari (in miliardi di dollari) da 140 del 1987 sono passati a 1.400 nel 2013. Il loro patrimonio è oggi di 5.400 miliardi di dollari, pari all’1,5% del patrimonio totale del pianeta.

La cosa più incredibile è che di troppa disuguaglianza (e di redditi bassi) si può anche morire. All’apice della sua gloria, dopo aver conquistato e soggiogato ogni sperduto angolo del globo, il capitalismo «si sta incartando». Invece di andare avanti, presenta sempre più i caratteri, le storture, le ricchezze improduttive e gli abissi di miseria sociale del capitalismo ottocentesco.

Tutta la società – anche quella che rappresenta l’anima del capitalismo, la classe media – ne esce sempre più impoverita e ai margini del ciclo produttivo, mentre la disuguaglianza non trova più nessun freno. Per invertire la rotta, per tornare a un «buon capitalismo», il riformista Piketty propone ricette moderate anche se di segno radicale. L’impressione però è che aver svegliato dal suo lungo sonno il Grande Vecchio Karl possa rivelarsi un’imprudenza. Se i saggi consigli di Piketty rimarranno inascoltati (e si sa che miliardari, banche e governi sono duri d’orecchi) potrebbe essere proprio la disuguaglianza «il becchino del capitalismo».

Il becchino, promosso di recente a operatore necroforo, è quello che «arriva per ultimo». Scava e rimette la terra, chiude il loculo con calce e mattoni. Fa il suo lavoro in silenzio, curando di fare il meno rumore possibile. A quel punto, tutto il fiume di parole inutili, di gelosie stupide, di raggiri senza senso, tutto il niente rumoroso di cui abbiamo riempito la nostra vita, è già concluso. I piccoli come i grandi miliardari di cui sopra sono sotto La livella del Principe Antonio de Curtis. Insomma, per quanto la parola ancora non ci piaccia, il becchino senza parole avrebbe molto da insegnarci.