Il vecchio e il bambino
In questo periodo di riflessione sullo stato delle finanze pubbliche e sul riequilibrio dei bilanci dello Stato, ci sono due elementi che non possono essere elusi: la spesa per pensioni e previdenza sociale per tutelare chi esce dal mercato del lavoro e l’offerta di welfare per i giovani che nel mercato del lavoro tentano di entrare. I due aspetti sono legati e sono spesso presentati in una logica di scontro intergenerazionale, ma occorre ridefinire il contratto sociale tra generazioni per evitare che tale scontro avvenga realmente. Non si tratta di «guerra tra poveri», ma delle basi della convivenza e della sopravvivenza di uno Stato e delle sue diverse componenti sociali e demografiche.
Analizzando la spesa per pensioni rispetto al PIL, nel 2010 essa si attesta intorno al 15%, circa il 5% sopra la media UE. Date le prospettive demografiche, la riforma accelerata verso il contributivo appare come una misura di responsabilità, oltre che di equità. Chiaramente il sistema contributivo, commisurando la pensione a quanto viene effettivamente versato nel corso della vita lavorativa, ha un impatto particolare sui giovani che, data la diffusa situazione di precariato, rischiano di versare pochi contributi e quindi ricevere una pensione molto bassa.
La generazione dei giovani (fino ai 35 anni) è in una situazione difficile: innanzitutto un tasso di disoccupazione che sfiora il 30%, quasi 4 volte il tasso di disoccupazione generale. Guardando gli stipendi, negli anni ’80 i giovani prendevano il 20% in meno degli ultra 60enni, oggi prendono il 35% in meno. In più, i lavori che compiono sono, in larga parte, forme di impiego meno tutelate, in quanto le tutele sono sbilanciate a favore di contratti a tempo indeterminato, appartenenti in media a lavoratori più anziani. Osservando poi il diritto ai minimi sociali, essi sono garantiti solo ai pensionati e non ad altri lavoratori: la conseguenza è che il tasso di povertà è più alto tra i giovani che tra gli ultra 60enni. Guardando poi i giovani professionisti, essi risultano parzialmente penalizzati dalla mancata liberalizzazione delle professioni in quanto, esistendo tariffazioni minime, non possono competere sul costo per crearsi una clientela e una reputazione. La situazione delle giovani donne è ancora più difficile: nonostante una maggiore istruzione rispetto agli uomini e competenze più in linea con le esigenze del mercato del lavoro, hanno tassi di attività lavorativa molto bassi. Ostacolo principale la maternità: per esempio, solo il 12% dei figli ha posto al nido, contro il 65% di Svezia e Danimarca. In questo caso il problema è sia di offerta di nidi sia di domanda, poiché vi è ancora una discreta contrarietà a mandare i figli sotto i 3 anni all’asilo nido. Finora questa situazione ha trovato una soluzione nel supporto familiare. Tuttavia è un supporto che richiede prossimità geografica e il lavoro flessibile non lo permette: è un meccanismo sempre meno attuabile. Inoltre non promuove la meritocrazia e la mobilità sociale: più la famiglia è facoltosa più può permettersi di mantenere i figli mentre famiglie meno abbienti troveranno meno mezzi per poter tentare di progredire. In questo contesto, fare il bene diretto dei figli, pur essendo l’unica cosa da fare in molte situazioni, sta portando al crollo di efficienza e produttività del lavoro giovanile.
Occorre dunque riequilibrare il welfare a favore delle generazioni più giovani, che però non siedono nei meccanismi decisionali. Sarebbe ottimale poter fornire sempre più tutele a tutti. Purtroppo lo stato delle finanze pubbliche, pur riducendo tutti gli sprechi immaginabili, non lo permetterebbe, e la redistribuzione intergenerazionale di diritti e welfare risulta essere una scelta di equità. [I dati sono elaborati da misure ECOFIN, ISTAT e da «Contro i giovani» di T. Boeri e V. Galasso, Mondadori].
Fabrizio Panebianco
dottorato in economia
università Ca’ Foscari, Venezia,
ricercatore di economia politica,
università degli studi Milano-Bicocca