Il tradizionale pomodoro italiano
L’antefatto: l’aglio delle nonne
Non più di un anno fa ho partecipato a una lezione di cucina dal titolo La cucina dei Presidi SlowFood del Veneto. Il volantino che pubblicizzava l’incontro spiegava gli obiettivi e le motivazioni dell’iniziativa, le implicazioni culturali della nostra nutrizione e si concludeva con queste parole: «Le ricette percorreranno la cultura culinaria veneta».
Uno dei primi ingredienti-presidi incontrati è stato il carciofo: il cuoco-insegnante ci invita a utilizzare poco aglio, possibilmente in camicia, togliendolo dal fuoco poco dopo che l’olio ha raggiunto il proprio punto di fumo. Queste indicazioni sono sufficienti a indurre un piccolo drappello di corsisti a una sorta di ammutinamento basato sull’osservazione che parlare di cucina tradizionale («delle nonne») significa usare l’aglio («e la cipolla») in quanto, tra l’altro, la cucina tradizionale è e deve essere in tutti i sensi «forte».
Chi scrive solleva invece subito una questione di metodo: il corso non è un corso di cucina sulla tradizione, ma sui presidi SlowFood; in altre parole la «cultura culinaria veneta» viene ripercorsa per portare sulle nostre tavole i prodotti (che sono narrazione di un territorio e di una comunità), non i gusti di decenni o secoli passati.
Il cuoco-insegnante, per sedare la cosa, interviene senza riferirsi alla corretta descrizione della lezione cui stiamo assistendo ma, a mio avviso, entrando a gamba tesa nella questione culturale sollevata dai puristi del gusto affermando: «Io cucino tutti i giorni, più volte al giorno, per più persone, mi annoio, mi riduco a macchina nel riproporre pedissequamente ricette e tecniche già sperimentate, provate e riprovate».
Da questa piccola (e tutto sommato pacifica) disputa emerge una questione a mio avviso centrale per chiunque voglia affrontare il tema della tradizione e della cultura: il luogo cardine della condivisione – la cucina – diventa lo spazio di rappresentazione della disputa sul significato e il senso della tradizione.
L’interrogativo: cucina tradizionale?
Cucina tradizionale o più generalmente tradizione è diventata un’espressione rifugio, abusata e stravolta, utilizzata per discussioni leziose che puntanoàpiù o meno tutte a fornire semplici giustificazioni alle nostre convinzioni. È fin troppo frequente incontrare anziani convinti di aver sempre mangiato in un certo modo solo in virtù del fatto che quella è l’alimentazione proposta dalle sagre di paese organizzate dai quei gorghi di fondi pubblici che sono le Proloco. È fin troppo facile collassare tutti i sensi e i significati all’interno di un’alimentazione che ben si adatta a quello che vorremmo (speriamo) essere un passato in realtà mai esistito. Ci copriamo gli occhi di banalità culinarie che altro non fanno che avvilire un ieri che ci fonda.
La cultura gastronomica italiana è un esempio di gigantesca energia, un luogo di lettura e di interpretazione dei contesti sociali, economici, religiosi che si sono susseguiti in un territorio, geograficamente limitato, ricchissimo di differenze, che ci può aiutare a discutere costruttivamente di tradizione.
La cucina è quello spazio in cui, da italiani soprattutto, ci riconosciamo, nel quale cerchiamo la possibilità di raccontarci e di descriverci rispetto agli altri paesi, cerchiamo un’identità, costruiamo coesione (anche se spesso tutta rivolta all’esterno). Ecco che allora cene medioevali, trattorie, osterie, feste e sagre diventano luoghi di rassicuranti sicurezze; ecco che l’invito del cuoco-insegnante a non abusare dell’aglio si trasforma in un possibile attacco alle mie convinzioni, alla mia cultura, in altre parole alle mie tradizioni. Tutto questo nostro rifugiarci nella tradizione; tutto ciò, come proverò a sostenere, non ha invece altro effetto che uccidere le tradizioni e le culture.
Dove inizia la tradizione che vogliamo? dall’araba pasta? dall’americano pomodoro? dal medioorientale grano? dal limone? dal peperone? dal peperoncino? dai fagioli? dal riso? dalla patata? dal baccalà? dalle spezie?
Ho l’impressione che tutti sappiano quanto dobbiamo alle culture altre nella costruzione di ciò che ci descrive e ci identifica; ho l’impressione, però, che questa constatazione, nel migliore dei casi, si fermi qui. Si viene a creare una spaccatura tra chi sbandiera le tradizioni (morte e pietrificate) e chi ricorda (con atteggiamenti spesso paternalistici e moraleggianti) i nostri debiti con altre culture.
In realtà la gastronomia, la cucina, lo spazio dell’incontro e dell’ospitalità, il luogo della condivisione è, io credo, la via per mostrare un’altra realtà, più difficile, più limacciosa, contemporaneamente estranea alle idiozie del popolo padano e alle tristezze dei teorici del meticciato-totale.
Un esempio: l’identità del pomodoro
Il pomodoro arriva in Europa nel XVI secolo, cosa accade? Gli italiani ne fanno ciò che sarebbe poi divenuto? No. Accade che i manuali di cucina fino all’inizio del XIX secolo si interrogano sul suo utilizzo: fritto, lesso, allo spiedo, senza riuscire a trovare uno spazio a questo ingrediente. Il risultato è che quello che oggi consideriamo un elemento immancabile nella nostra spesa, non veniva adoperato, i cuochi e gli agronomi conoscevano il frutto e la pianta, tentavano sperimentazioni e utilizzi per poi tornare sui loro passi e soprassedere.
Le torte (tipicità italiana sin dal XII secolo) continuano (nel XVI e nel XVII secolo) a non prevedere l’uso del pomodoro: questo potrebbe non sembrarci interessante, fintanto che non veniamo a sapere che all’interno dei capitoli dedicati alle torte nei libri di cucina medioevali comparivano miriadi di varianti (erano una base di pasta cotta al forno condita con verdure di stagione e formaggio), tra cui quella napoletana che era chiamata… pizza!
Allora il pomodoro come entra nella nostra cultura? come diventa un elemento della tradizione? Tra le mode del XVII secolo c’è quella della salsa e dei sughi, questo perché il mercato sempre più globale aiuta la circolazione delle spezie che, scendendo di prezzo, vengono utilizzate in modo più ampio e diffuso. Risultato: le pietanze vanno accompagnate da salse e sughi; non farlo è out.
L’uso delle salse prosegue, acquista vigore con la «giovane» cultura gastronomica francese, fino a che, coup de théétre, i cuochi non si reinventano il pomodoro facendone la base di sughi e salse. Allora e solo allora il pomodoro entra nella nostra tradizione modificandola.
La storia del pomodoro, quindi, ci mostra da un lato che la tradizione intesa come chiusura identitaria non ha alcun senso storico, dall’altro che la propaganda del meticciamento utilizzato solo per attaccare e contrastare chi vorrebbe innalzare muri non ha solide fondamenta.
La storia della gastronomia italiana ci mostra che la cultura e la tradizione sono sistemi aperti, dove non avvengono banali sommatorie di diversità, ma i nuovi elementi (siano essi alimenti, condimenti, pensieri, modi di leggere la realtà) vengono riimpastati in una dinamica che porta alla costruzione di novità. Novità e cambiamenti che, come ancora la gastronomia ci insegna, non soffocano il «passato», ma lo arricchiscono: il confronto è generativo di ulteriori cambiamenti su cui costruiremo la nuova tradizione, senza abbandonare il passato. Le salse bianche non verranno soppresse dall’introduzione del pomodoro (così come gli gnocchi medioevali – es. i canederli – non verrannoàdimenticati a seguito dell’introduzione dei nuovi gnocchi di patata).
Il pomodoro non è arrivato sulle nostre tavole sotto forma di passata, è stato ri-inventato, ri-letto; è il confronto, lo scambio, l’immanente necessità, o casualità, storica, che ha creato ciò che sarà tradizione, innestando un’alterità in un percorso, facendo fare a quel cammino un’altra tappa.
Un altro piccolo esempio: il peperoncino arriva nel vecchio continente assieme al pomodoro, troverà un ambiente fertile nel meridione della nostra penisola, classificato come cibo povero verrà utilizzato dalle classi meno abbienti come sostituto dell’aristocratico pepe. Tornerà nel nuovo continente, dove non veniva utilizzato, come alimento dei migranti, come tale andrà a determinare una cultura, caratterizzandola.
Per concludere
Ho avuto la fortuna di occuparmi, alcuni anni fa, di biodiversità. Quel percorso mi ha aiutato a capire che nessun parco naturale (pratica degnissima, da preservare e implementare) potrà far vivere la vita: non è, e non sarà, mettendo recinti o cupole di vetro su ambienti naturali che li preserveremo. Al più li catalogheremo, collezioneremo, terremo ferma la vita, la preserveremo dal cambiamento, dall’evoluzione… ma l’evoluzione non è un modo in cui si manifesta la vita, non ne è una metodologia, ne è la sostanza. Altrettanto, io ritengo, si debba dire parlando di cultura e tradizione. Non sarà ribadendo il livello «corretto» di bruciatura dell’aglio che preserveremo le nostre radici, ma capendo che questa si fa e si costruisce continuamente rinnovandosi attorno a gesti, espressioni e sensibilità che innovano tenendosi radicate in un passato che ci appartiene. Sale quanto basta, una lacrima di latte, un sospiro di cannella, un velo di farina, sono espressioni di sensibilità che possiamo incontrare nei manuali di cucina, espressioni che ci chiedono di far vivere quelle ricette nel nostro presente. Farle vivere in una costante reinterpretazione, perché rinchiuderle nei mausolei delle Proloco equivale ad aprire le praterie delle nostre culture, questa volta sì, alla sconfitta.
Accettare, allora, la noia (che animava il cuoco-insegnante), e il desiderio di creare, come componenti essenziali del nostro fare cultura, del vivere in una tradizione, come elementi necessari.
Massimo Montanari scrive «La cultura non è una cosa che si fa, ma un modo di fare le cose» (Cibo, cultura, biodiversità, in Bioresistenze di prossima pubblicazione), come dire: la tradizione gastronomica italiana è un modo di fare condivisione, è un insieme di gesti che non può essere appiattito nel recinto di una tradizione fatta di bandiere e di slogan.