Il tempo del No
Integrazione e disgregazione, politica o economica, sono processi che si sono sempre alternati nella storia. A periodi di forte integrazione succedono periodi in cui le voci favorevoli alla disgregazione crescono. Questo perché l’integrazione economica porta sempre una differente distribuzione delle ricchezze prodotte e chi si sente lasciato indietro protesta per la posizione perduta. Oggi avviene ogni volta che si vota o si agisce «contro» il sistema che genera questa ansia.
È un processo che è evidente da almeno 15 anni e che non ha colore politico. Agli inizi del 2000 le prime forze di disgregazione avevano la forma di movimenti altermondialisti. In essi vi erano idee che contestavano ogni forma di globalizzazione e movimenti che proponevano globalizzazioni alternative. Di fatto era la voce dell’altra parte del mondo che reclamava un posto.
Ora è il tempo della nostra parte di mondo, che un posto non lo vuole cedere e che ha paura dello scontro-incontro. C’è la paura economica, la paura del terrorismo ormai presente nelle nostre città europee, e la volontà di dare un messaggio alle istituzioni che si ritengono responsabili di questo. Brexit è anche questo.
Le conseguenze economiche sono un aspetto su cui focalizzarci, e due piccoli esempi permettono di capire quanto la situazione sia molto difficile. Brexit, certo, non è l’anno zero e UK non finirà sull’orlo della bancarotta, ma ha molto da perdere se agisce male.
Pensiamo agli investimenti in ricerca. L’Unione Europea finanzia molti progetti tramite la sua agenzia ERC. Solitamente ai bandi partecipano team internazionali di ricercatori. Il giorno dopo il referendum su Brexit, dalle università dell’Europa continentale sono arrivate varie comunicazioni a varie università e istituzioni UK nelle quali si informava che queste ultime non sarebbero più state parte di nuovi progetti perché, potendo uscire dalla UE, si sarebbero perduti i fondi. Ora, i dipartimenti in UK, grazie a una politica aperta di reclutamento dei ricercatori internazionali e a una libera contrattazione dei salari, attirano molti ricercatori stranieri e sono degli ambienti accademici che, in Italia, ci sogniamo proprio per la nostra mancanza di apertura. Brexit rischia di far perdere parte di questo patrimonio.
La questione più spinosa, però, riguarda la rinegoziazione di tutti i trattati commerciali, da cui di fatto dipende il benessere e l’economia di un paese. Il governo UK rischia di essere in un cul-de-sac in quanto dovrà rinegoziarli bilateralmente con tutti i Paesi, e in particolare con in paesi EU. La mole di trattati che un paese ha, si è formata nel corso di decenni. Che un paese riesca a rinegoziarli tutti nei pochi mesi successivi all’uscita formale dalla UE risulta poco probabile e rischia di generare un’incertezza forte. Inoltre un paese come UK non ha al momento un gruppo di negoziatori grande abbastanza per adempiere questo lavoro. La prima mossa di Brexit rischia di essere la richiesta di negoziatori immigrati! Inoltre UK, togliendosi dal mercato unico europeo, avrà un beneficio solo se rimarrà molto aperta a forza lavoro immigrata e se mantiene molto aperta la propria economia, che esporta servizi e non merci. Ma questa apertura è esattamente il contrario di quanto chiesto dagli elettori.
Le stime dicono che Brexit, a seconda di come viene gestita, può portare a una perdita annua di qualche migliaio di sterline a famiglia, fino a un guadagno di qualche centinaio di sterline. Tutto dipende dalla bravura della classe politica. Brexit è riuscita a destabilizzare politicamente in pochi giorni un paese considerato solido. Risulta quindi improbabile un’ottima gestione di questo processo. Dal lato europeo poi, c’è un nutrito gruppo di paesi che vorrebbe dare una lezione pesante agli inglesi, per scoraggiare l’avanzata degli euroscettici.