Il pensiero economico che ci aspetta: alla ricerca del senso perduto
Uno degli aspetti più insidiosi della concezione economicistica fondata sul primato dell’Homo oeconomicus è la sua presunta neutralità in termini di ipotesi sulla natura umana: si potrebbe infatti sostenere che l’Homo oeconomicus, in fondo, obbedisce alla sua convenienza ma nessuno pre-definisce in che cosa questa consista. In realtà, questa stipulazione apparentemente neutra e quasi tautologica introduce alcune ipotesi estremamente forti sulla natura umana. In particolare, l’idea che una categoria di «convenienza» soggettivamente definita possa caratterizzare in misura esauriente il senso dell’azione economica di un individuo, e quindi ponga quest’ultimo come detentore e giudice unico e insindacabile di tale senso: ma questo vuol dire, in ultima analisi, che lo sviluppo umano, ovvero la sistematica trasformazione delle categorie di pensiero, di percezione e di valutazione del mondo, dovuta al progressivo accumularsi di nuove esperienze e capacità, può essere soltanto il risultato pianificato di una strategia razionalmente formulata e messa in atto, oppure il risultato accidentale (non pianificato e non voluto) di scelte e azioni che perseguivano finalità differenti.
Ripiegando la categoria dell’economico unicamente sul criterio della convenienza comunque definita, manca la possibilità di pensare lo sviluppo umano come risultato di una crisi di senso, di una continua falsificazione di ipotesi e di progettualità che costringono l’individuo a imparare, ovvero a rimettere in discussione il fondamento delle proprie convinzioni e delle proprie scelte, e se occorre ad allargare e a rendere sempre più complesso il suo sistema di motivazioni.
Limiti del criterio convenienza
Se scendiamo nell’arena del senso, i limiti di un approccio che riduca la natura umana alla ricerca della convenienza ci appaiono subito in tutta la loro evidenza. Un test particolarmente interessante è quello dei plot cinematografici, che costituzionalmente riflettono sempre alcuni archetipi del sentire comune, per una semplice ragione: a differenza di altre forme di produzione artistica, come ad esempio le arti visive o la musica, che nella maggioranza dei casi richiedono costi di produzione relativamente contenuti, nel cinema i costi di produzione sono tali da costringere i produttori a mettere in scena una struttura narrativa nella quale il pubblico abbia la possibilità di riconoscersi e immedesimarsi, pena il fallimento commerciale del progetto e le prevedibili conseguenze finanziarie (anche se naturalmente il mero seguire determinate regole non assicura comunque il successo commerciale o anche soltanto la copertura dei costi). Tra le «costanti» narrative più robuste, la punizione (o quantomeno la frustrazione) di chi agisce soltanto sulla base del proprio interesse (un topos che affonda in realtà le sue radici nelle fiabe più classiche) occupa un posto di rilievo. Ad esempio, in una delle più potenti ed evidenti narrazioni filmiche relativamente recenti che si rifanno esplicitamente all’idea del mito – il ciclo di Guerre Stellari di George Lucas, che non a caso può essere letto come una celebrazione dei valori dell’individualismo imprenditoriale dei Mercanti contro la tirannia feudale dell’Impero e quindi sottoscrive pienamente un sistema di valori coerente con la promozione dell’intraprendenza individuale – l’eroe-jedi è caratterizzato da un sistema motivazionale fortemente pro-sociale, mentre sono i malvagi servi dell’imperatore, Darth Vader in testa, a essere totalmente ripiegati sui propri scopi auto-referenziali di ricerca del successo e del potere a tutti i costi.
Si potrebbe naturalmente argomentare che questa rappresentazione filmica corrisponde a una visione idealizzata, lontana dalla reale prassi quotidiana, che viene ricercata e approvata proprio in quanto lontana dai comportamenti effettivi e in quanto capace di suggerire che le persone siano in realtà migliori di quanto effettivamente sono. Ma dal punto di vista della nostra argomentazione, questo aspetto, che pure è senz’altro realistico e pertinente, non è particolarmente rilevante, in quanto ciò che qui ci interessa è proprio discutere le convinzioni relative a come si dovrebbe vivere: in tal senso, il fatto che simili idealizzazioni si scontrino con la prassi di tutti i giorni, e magari che diventino più esasperate in momenti di particolare disgregazione o conflitto sociale (si pensi ad esempio al cinema di Frank Capra negli anni della Grande Depressione e del secondo dopoguerra) non fa che evidenziare l’esistenza di una dissonanza cognitiva generalizzata rispetto ad atteggiamenti sociali che dovrebbero essere pienamente accettati in quanto giudicati espressioni vere e autentiche della natura umana ma che vengono invece simbolicamente condannati e sottoposti a un contrappasso anche feroce.
Per un’economia umanistica
Un momento di crisi profonda come quello attuale è quindi ideale per avviare una seria e profonda riflessione sulla natura dell’economico e sul suo rapporto con i processi di generazione e di condivisione del senso, una problematica che, al momento, per molti economisti, sarebbe semplicemente incomprensibile nella sua stessa formulazione, e che invece con tutta probabilità acquisterà una rilevanza crescente nella ricerca e nel dibattito dei prossimi anni. Fare ciò significa, in ultima analisi, riflettere sulla possibilità di un’economia umanistica nella quale il rapporto tra risorse e buona vita individuale e collettiva torni a essere una questione centrale e fondante, a partire dal riconoscimento del fatto che ciò che è buona vita non è semplicemente un riflesso meccanico della struttura delle preferenze individuali in un dato momento ma è piuttosto il centro stesso del problema della scelta, dalla sua formulazione alla sua (temporanea) soluzione.
Pier Luigi Sacco
professore ordinario di economia della cultura
Università IUAV, Venezia
responsabile scientifico di Goodwill, Bologna