Il nome di Dio
Nella Torà
Il nome di Dio è proclamato, nella rivelazione del Sinài, nella prima parola del Decalogo: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, da una casa di schiavi. Non avrai altri dei di fronte a me» (Es 20,2; Dt 5,6). Dio si rivela in prima persona (‘anokì, «io») con i due nomi che, uniti, lo definiscono nella pienezza della sua essenza: il tetragramma sacro (JHWH), il nome impronunciabile (shem ha-meforash) che viene letto ‘Adonàj, «Signore», nella liturgia e nella preghiera, e ha-Shem, «il Nome», nello studio e in ogni altro uso consentito; il nome ‘Elohìm, tradotto di norma con «Dio». Il passo citato, per mantenere la forza del testo ebraico, andrebbe letto così: «Io sono ‘Adonàj, il tuo ‘Elohìm».
L’unione del tetragramma sacro e del nome ‘Elohìm racchiude il senso profondo della creazione e ci mostra le modalità dell’agire di Dio, giusto e provvidente, nei confronti del suo mondo e delle sue creature. Secondo la tradizione ebraica, infatti, il tetragramma sacro indica la misericordia divina (middàt ha-rachamìm) mentre il nome ‘Elohìm richiama la sua giustizia (middàt ha-din). È detto nella Genesi/Bereshìt: «Nel giorno in cui ‘Adonàj ‘Elohìm fece la terra e i cieli» (Gn 2,4) e così commenta il Midrash: «’Adonàj ‘Elohìm è simile a un re che aveva dei bicchieri vuoti. Disse il re: se io verso dei liquidi caldi, si spaccheranno; se freddi, si incrineranno. Che fece il re? Mescolò il liquido caldo con quello freddo, lo versò nei bicchieri ed essi resistettero. Così disse il Santo benedetto egli sia: se creo il mondo con la misura della misericordia, i peccatori saranno molti; se con la misura della giustizia, come potrà sussistere il mondo? Ma io lo creo con la misura della giustizia e con la misura della misericordia e forse potrà sussistere» (Bereshìt rabbà 12,16).
Dio, nella duplice dimensione di ‘Adonàj ‘Elohìm, è insieme giudice inflessibile e padre misericordioso, terribile e amorevole, pronto a condannare i peccatori e ad accogliere chi fa teshuvà («pentimento»), lontano e vicino, assente e presente. La sua mano forte viene a punire i malvagi e i nemici di Israele, e quella stessa mano, come lo ha liberato dall’Egitto, libererà Israele e redimerà il mondo nella pace e con l’amore. Questo sembra essere anche il significato profondo del nome che Dio, sul Monte Chorèv, dal roveto ardente, ha rivelato a Mosè per primo e non ai Padri (Abramo, Isacco e Giacobbe), a colui, cioè, che è chiamato a guidare Israele fuori dalla terra d’Egitto per condurlo ai piedi del Monte Sinài e fino alle soglie della terra promessa. È detto: «Mosè disse a ‘Elohìm: Ecco io arrivo dai figli d’Israele e dico loro: ‘Elohìm dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma essi diranno: come si chiama? E io cosa risponderò loro? ‘Elohìm disse a Mosè: Io sono colui che sono» (Es 3,13). Il nome che Dio rivela a Mosè può essere tradotto anche in questo modo: «(Io) sarò quel che sarò» o «(Io) sarò colui che sarò». Il Dio di Mosè non è l’essere, è, nel suo rapporto col mondo e con l’uomo, il divenire: nella creazione (mai compiuta), nella rivelazione (sempre aperta), nel rapporto con Israele (il popolo che egli ha scelto per essere il suo ‘Elohìm), nei volti che Egli mostra o che nasconde, nella redenzione che si realizzerà compiutamente solo nel mondo a venire.
Il nome di Dio rivela anche il mistero della sua unità e unicità, come è detto nel versetto che apre la preghiera dello Shemà («Ascolta»): «Ascolta, Israele, ‘Adonàj è il nostro ‘Elohìm, ‘Adonàj è Uno (‘echàd)» (Dt 6,4). Il Signore è l’uno, il tutto che è il luogo del mondo e che restringendosi ha lasciato lo spazio per creare la molteplicità del mondo. E questo mondo molteplice, nel segno del due e non più dell’uno, è destinato a ritornare nell’unità del suo Creatore nel tempo a venire, quando «’Adonàj sarà re su tutta la terra, ‘Adonàj sarà Uno e il suo nome Uno» (Zc 14,9).
Gianpaolo Anderlini
Nel Corano
Bismillah (nel nome di Dio) è la formula con la quale il credente avvia ogni sua azione. Ogni suo comportamento si muove in ossequio e sotto l’auspicata protezione del nome di Dio. Si potrebbe dire che il fedele accede al linguaggio attraverso l’evocazione del nome di Dio. Va ricordato che la lingua araba è sentita come lo svolgimento del dono rappresentato dalla lingua del Corano, che è diretta manifestazione divina. Proprio per questo, al-Basmala (la sostantivazione dell’espressione Bismillah) equivale all’affermazione «Iddio sia lodato». Il credente quindi dovrebbe parlare e agire intonando la sua azione al nome di Dio. Ogni Sura (capitolo) e ogni citazione dal testo sacro sono introdotte con l’espressione Bismillah ar-Rahman ar-Rahim (nel nome di Dio compassionevole e misericordioso).
Va inoltre sottolineato che la formula con la quale il musulmano testimonia la sua fede, ash-Shahada, che è il primo degli Arkan (pilastri dell’islam come abbandono alla volontà divina), consiste nell’affermazione che non vi è altra divinità che quella di Dio, ciò che si lega immediatamente alla parola coranica, attraverso l’affermazione per cui Mohammad è il suggello finale della profezia.
«Allah testimonia, e con Lui gli Angeli e i sapienti, che non c’è dio all’infuori di Lui, Colui Che realizza la giustizia. Non c’è dio all’infuori di Lui, l’Eccelso, il Saggio» (III, 18).
Dio stesso è testimone di ciò che proclamano con Lui gli angeli e i sapienti, ossia che Egli è l’unico Dio e in ciò si realizzano e si manifestano tutte le forme mediante le quali l’umanità potrà aderire al suo evento.
Il nome di Dio nella tradizione islamica si svolge nella sequela dei novantanove nomi di Dio di cui i primi due sono significativamente ar-Rahman (compassionevole) e ar-Rahim (misericordioso).
«Il vostro Dio è il Dio Unico, non c’è altro dio che Lui, il Compassionevole, il Misericordioso» (II, 163).
Successivamente gli altri nomi divini riconducono all’unicità di Dio tutte quelle dimensioni della vita che come uomini riconosciamo come eccellenti.
«Allah! Non c’è altro dio che Lui, il Vivente, l’Assoluto. […] Il Suo Trono è più vasto dei cieli e della terra, e custodirli non Gli costa sforzo alcuno. Egli è l’Altissimo, l’Immenso» (II, 255).
L’unicità di Dio riporta al suo nome la pluralità delle dimensioni della vita. Il giorno del giudizio finale e tutte le vicende umane si raccolgono nella sua verità.
«Allah, non c’è dio all’infuori di Lui! Certamente vi adunerà nel Giorno della Resurrezione, su cui non vi è dubbio alcuno. E chi è più veritiero di Allah? » (IV, 87).
Il nome di Dio è quindi anche quello in cui le genti del libro possono ritrovarsi in lascito comune.
«Dialogate con belle maniere con la gente della Scrittura, eccetto quelli di loro che sono ingiusti. Dite [loro]: «Crediamo in quello che è stato fatto scendere su di noi e in quello che è stato fatto scendere su di voi, il nostro Dio e il vostro sono lo stesso Dio ed è a Lui che ci sottomettiamo»» (XXIX, 46).
Mohammed Khalid Rhazzali
Nel Nuovo Testamento
Il nome di Dio era impronunciabile e innominabile per il popolo ebraico, perché dire o dare il nome aveva per questa cultura il significato di possedere, e nessun essere umano può possedere Dio. È interessante questa premessa per comprendere l’assoluta novità del Nuovo Testamento che osa parlare del nome di Dio, non perché l’uomo lo possieda, ma perché Dio stesso è venuto a donarsi a noi nel Figlio. Senza questo presupposto non si potrebbero comprendere le parole di Gesù Cristo. Egli infatti si rivolge a Dio chiamandolo Padre ed è questo il nome di Dio rivelato ai credenti: Dio è Padre. Gesù rivela Dio come Padre e poi Padre nostro: nel Nuovo Testamento questo termine compare molte volte (170 nei Vangeli e 250 nel resto degli scritti).
La paternità di Dio nel Nuovo Testamento si distingue in tre ambiti e modalità diverse del suo manifestarsi: paternità universale, paternità nei confronti di un gruppo, paternità di un’unica persona: Gesù. È da quest’ultima che prendono origine le altre. Infatti, nell’Antico Testamento nessun israelita avrebbe osato chiamare Dio suo padre in senso personale.
Invece, Gesù parla di «Padre suo»: questo ci dice che al suo interno Dio è relazione. Se esiste un Padre vuol dire che c’è anche un Figlio. Questi termini ci raccontano con un linguaggio umano il mistero inconoscibile di Dio: dove c’è relazione c’è anche amore, ed è questo il nome di Dio a cui arriva la Prima lettera di Giovanni: «Dio è amore» (1Gv 4,8b). Proprio questa lettera precisa che: «… la vita si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi» (1Gv 1,2). Gesù è la vita eterna resa visibile. Se Gesù Cristo parla di Dio, abbiamo il Figlio di Dio che parla di Dio. È Lui l’unico autorizzato a parlare di Dio, come precisa il prologo di Giovanni: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18).
Nel vangelo di Giovanni al capitolo 17 Gesù si rivolge al Padre e parla della propria missione: «Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo» (Gv 17, 6); «Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi» (Gv 17, 11); e ancora: « Quand’ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato…» (Gv 17, 12a). Custodire nel nome del Padre, manifestare il nome del Padre, dato al Figlio perché sia rivelato al mondo per mezzo del Figlio stesso, è la volontà di questo Padre.
Quel nome di Dio che era impronunciabile ora diventa un’invocazione sulle labbra del cristiano che sa a chi si rivolge con la sua preghiera: al Padre del Signore Gesù Cristo che diventa ora Padre di ogni credente (Ef 1).
San Teofilo di Antiochia scrive. «Mi dirai: descrivimi l’immagine di Dio! L’immagine di Dio è inesprimibile e inenarrabile… Nella gloria egli è infinito; nella grandezza è incontenibile; nell’altezza è incommensurabile; nella forza è incomparabile; nella sapienza senza confronto; nella bontà inimitabile; nella creazione di bellezze è indescrivibile. Se lo chiamo luce, io nomino una sua creatura; se lo chiamo forza, nomino il suo potere; se lo chiamo potenza, nomino la sua energia; se lo chiamo provvidenza, nomino la sua bontà; se lo chiamo re, nomino la sua gloria; se lo chiamo Signore, lo nomino giudice; se lo chiamo giudice, lo nomino come giusto; se lo chiamo Padre, dico che lui è tutto» (Ad Autolico, I, 3).
Elide Siviero