Il linguaggio del corpo

di Zannnni Chiara

«Nella violenza del mio gesto o nella sua delicatezza, nella sua tonalità decisa o incerta, c’è tutta la mia biografia, la qualità del mio rapporto col mondo, il mio modo di offrirmi. Attraversando da parte a parte esistenza e carne, la gestualità crea quell’unità che noi chiamiamo corpo, perché non è il corpo che dispone dei gesti, ma sono i gesti che fanno nascere un corpo dall’immobilità della carne». Umberto Galimberti, Il corpo.

Per cinque giorni ho ascoltato il mio corpo, ho lasciato che a parlare fosse lui. Ha dettato il ritmo durante un faticoso trekking in Garfagnana tra panie apuane, terremoti e verdissime praterie a mirtillo nel versante appenninico. Il corpo mi ha spesso esortato a non superare il limite, ma ha condotto senza tradire. Non era un veicolo, era me. E io sfidavo ogni giorno il difficile equilibrio tra volontà e forza, fragilità e resistenza, ora della mente ora del corpo, ora del corpo ora della mente. Ma questa dualità di mente e corpo, così apparentemente scontata ora che scrivo, si ricompone in unità nell’atto stesso del camminare.

Per cinque giorni ero condotta e conducevo. All’inizio, la volontà al comando, e il corpo recalcitrante come un mulo che arrancava. Poi, trovata l’assonanza tra il ritmo alterno di battito e respiro, anche i muscoli hanno modulato il loro tono accordandosi alla cadenza dei passi in salita e in discesa. E quando finalmente la volontà ha abdicato, era il corpo che pensava e la mente, pacificata, camminava.

Ogni camminatore lo sa, non per altro si metterebbe in viaggio, se non per ritrovare quell’armonia perduta, la sintonia tra il cuore e il respiro, tra il passo e il pensiero.

Ma che lingua parla il corpo?

Il corpo non parla, il corpo è linguaggio. Anche le parole sono corpo, «corpo sottile», come direbbe Lacan, «ma corpo». Solo che le parole possono mentire. Il corpo no. Se le parole dicono «ti amo» ma non lo dice il corpo, l’amore, se c’è mai stato, è finito. Se il corpo dice «ti amo», non importa cosa dicono le parole, non è l’amore a essere messo in questione.

Questa «ipocrisia» del linguaggio delle parole proviene dalla sua capacità di evolvere e adeguarsiàalla complessità sempre maggiore della cultura, generando per metafore nuove componenti. Ai tempi di Omero, gli esseri umani pensavano ancora con il corpo e l’anima si identificava con il diaframma (frénes), il centro frenico da cui scaturisce il respiro e la vita. Poi l’anima è diventata leggera e volatile diventando quel metaforico afflato d’aria che il diaframma smuove (psyché). In questo passaggio dalla materia all’etere, la mirabile predisposizione generativa della lingua ha sacrificato il corpo sull’altare dell’astrazione per accompagnare l’umana scalata al platonico mondo delle idee. Il corpo-zavorra, involucro, «tomba» dell’anima, non può essere negato ma deve adeguarsi anch’esso a un ideale, un ideale di giovanile bellezza che la ginnastica scolpisce e che viene celebrato dai giochi olimpici. La ginnastica e lo sport sono ancora i luoghi deputati all’educazione del corpo. I regimi sanno quanto essi addomestichino assieme al corpo anche la mente, meglio di qualsiasi lavaggio del cervello. Come le flessioni imposte durante il servizio militare, che nell’era della fitness si chiamano push-ups. I «palestrati», giovani e meno giovani, li riconosci a distanza: hanno muscoli scolpiti e nessuna grazia di insieme, corpi senz’anima, stupidi, afasici.

Il linguaggio del corpo e i suoi fonemi

Potremmo dire che i fonemi del linguaggio corporeo sono i gesti e che nel movimento i gesti si compongono a produrre le parole e le frasi del discorso. I maggiori esperti in linguistica corporea sono i gatti. Chi ama i gatti ama il loro corpo intelligente, la grazia innata delle movenze, il molle stirarsi, l’agile balzare, lo stretching flessuoso del dorso quando si sporgono verso l’alto per raggiungere qualcosa. I loro muscoli sono dotati di acuti sensori neuromuscolari e di profonda intuizione di insieme del loro corpo nello spazio. Non spiego altrimenti l’antico e misterioso rapporto che lega la nostra specie di bipedi «sapientes sapientes» a questi quadrupedi a torto accusati di opportunismo e infedeltà, se non attribuendola all’ancestrale nostalgia di un’armonia psicomotoria perduta all’umano.

Il fraseggio del nostro corpo è più spesso scomposto e privo di fluidità e la sua verità fuor di metafora discorde dalla metaforica oggettività delle parole. Abbiamo ascritto la sua polisemica capacitààespressiva agli ambiti dell’arte e dell’intrattenimento e, tra i due estremi della danza e dell’osceno, il corpo-altro-da-sé calca la scena ora oggetto di stupita ammirazione ora dello sguardo morboso del voyeur.

«C’è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza»

Non esiste una ricetta per apprendere quello che già sappiamo a livello profondo e che l’educazione e la cultura ci costringono a rimuovere e a relegare nella materia incandescente dell’inconscio. Un diverso modello pedagogico si sta probabilmente facendo strada perché i bambini non perdano la capacità di dar voce, assieme al linguaggio del corpo, anche alle loro emozioni.

Nel mio lavoro di fisioterapista con gli adulti la vera sfida dell’atto terapeutico è prima di tutto di ordine pedagogico perché la ri-abilitazione di una qualsiasi lesione dello schema corporeo non implica semplicemente un ripristino della condizione antecedente al trauma ma una riprogrammazione neuromotoria dalle origini, una sorta di accompagnamento e di ricapitolazione ontogenetica per recuperare un linguaggio dimenticato molto prima del trauma. Se consentiamo al respiro di acquietarsi e di sintonizzarsi sul suo ritmo naturale, anche la «performance» motoria ne trarrà giovamento. Se invece di venti ripetizioni meccaniche di un esercizio ne facciamo meno ma cercando di immedesimarci nella fluidità e nel piacere del movimento, l’escursione articolare ne guadagnerà in ampiezza e il gesto in grazia.

Il rinnovato interesse per il corpo e il suo linguaggio è testimoniato dall’offerta sul mercato di innumerevoli tecniche psico-fisiche, più o meno attendibili ed efficaci. Non si tratta soltanto dell’onda lunga della cultura New Age: alcune discipline orientali sono dotate di storia e tradizioni dalle radici profonde la cui traduzione in Occidente non è esente dal rischio di approssimazioni e disinvolti adattamenti ma che fanno parte ormai del patrimonio culturale del nostro mondo globale. Lo Yoga, per esempio, ha nel suo nome la stessa radice etimologica di «con-iugare», verbo che nella sua accezione nuziale celebra un’unione e in quella grammaticale le molteplici possibilità di articolazione del rapporto tra un soggetto e un predicato, tra un corpo e la sua anima. Camminare o pedalare, in montagna o in un parco cittadino, ballare il tango, cantare il gospel, fare yoga o parkour… in molti modi possiamo ricongiungerci alle fibre carnose del nostro centro frenico per preservare la «competenza linguistica» del nostro corpo e salvare così il suo linguaggio e quella profonda sapienza di cui parlava Nietzsche dal rischio di estinzione.

Chiara Zannini
fisioterapista,
componente la redazione di Madrugada