Il degrado della politica nel silenzio della profezia
Recuperare la parola nei volti degli oppressi
«Comportatevi non da stolti
ma da uomini saggi.
Approfittando del tempo presente
perché i giorni sono cattivi».
Efesini 5, 15-16
«Sono tempi difficili.
Se tutti vogliono il potere,
chi renderà tacito servizio?».
M. K. Gandhi
Vederci così come siamo
Un giorno qualcuno chiese a un monaco zen quale fosse il senso della meditazione. Il monaco rispose: Quando mangio, mangio. Quando sto seduto, sto seduto. Quando sto in piedi, sto in piedi e quando cammino, cammino. L’interlocutore disse che queste cose non avevano nulla di particolare e che tutte le persone si comportano a quel modo. Il monaco rispose: Non è vero. Quando tu mangi, pensi a ciò che farai dopo avere mangiato; quando sei seduto, stai già per alzarti; e quando sei in piedi, stai già camminando.
Occorre stare in silenzio per far cessare il tumulto che è dentro di noi e imparare a vederci così come siamo veramente. Il primo scopo della spiritualità consiste proprio nel farci raggiungere la lucidità necessaria per vederci così come siamo. Ci capita spesso di mentire agli altri, ma almeno con noi stessi cerchiamo di essere sinceri. Se riusciamo a vederci come siamo, lasciando da parte le false immagini di noi stessi, possiamo vedere anche gli altri sotto una nuova luce. Non è facile prendersi il tempo necessario per mettersi di fronte a se stessi e stare davanti al proprio Dio. Troviamo sempre qualcosa di più urgente da fare, compiti più impellenti cui rispondere, giustificazioni per rimandare.
Parole giuste, parole forti
Perché diciamo che questi sono giorni cattivi? L’affermazione giorni cattivi è un’espressione biblica che indica tempi privi di una Parola che arriva da parte di Dio o da parte dei suoi profeti. Purtroppo questi nostri giorni sono privi di parole umane, sincere, vere, autentiche.
Quando la notte, nel buio, mi guardo dentro, ho più paura di peccare tacendo il grido del sangue di Abele, fatto bere per forza alla madre terra, che di peccare per eccesso di parole.
Dio mi perdoni e ci dia, nella sua misericordia, parole forti ma giuste, parole giuste ma forti e forti perché giuste. Cerchiamo di evitare, però, che le parole sensate siano mescolate assieme a quelle insensate perché non potranno poi essere recuperate per giorni migliori.
Il degrado dei rapporti e dei comportamenti politici ha prodotto, oggi, un atteggiamento di sfiducia e perfino d’indignazione di fronte alla politica. Se c’è una parola che desta profondo disgusto e disprezzo in larghi strati della popolazione, questa parola è «politica».
La politica, per come l’ho concepita e vissuta, è sempre un insieme di «radicalismo ideale» e allo stesso tempo di una «realistica soluzione» dei problemi che si presentano nella vita quotidiana. Questi elementi non possono essere scissi. Oggi, invece, ci troviamo su un terreno fragile, direi fragilissimo, fatto di parole e di chiacchiere, dove manca sia il realismo riformista, sia il radicalismo ideale. L’indifferenza sociale delle nuove generazioni è enorme. Sono cresciute nell’apatia del discorso politico e nell’assenza di valori condivisi; ciò ha generato in loro stanchezza, delusione e abbandono. Posso onestamente affermare di aver fatto dei poveri e dei giovani la mia ragione di vita. Sono stati sempre lo stimolo dei miei pensieri e delle mie attività. Se ieri potevano essere preda delle ideologie, oggi sono invece preda di un silenzio disperato. Una disperazione senza voce che li rende apatici. Occorre aiutarli a ritrovare le motivazioni, perché senza motivazioni non si vive.
Marìa Zambrano, la grande scrittrice spagnola, ci ha insegnato che tra la parola e la politica c’è sempre un legame profondo. Non ci può essere politica senza la parola.
A proposito, basta guardare al nostro Nordest, patria della Lega e analizzarne il linguaggio. Capiremo subito che il rapporto tra parola e violenza, tra parola ed esclusione, tra parola e discriminazione è all’origine di un nuovo modo di pensare, dove la parola caccia dalla sua dimora il Tu e vi pone al centro il tono grottesco dell’Io.
Se una parola è degradata e vuota produce una politica fatta di menzogna e di violenza, perché la parola è per costituzione sua e per essenza, dialogica, è relazione. Una politica disumana nasce da una parola che ha perso il senso, che ha perso la sua dimora, che ha abbandonato, in sostanza, la vita.
Indubbiamente negli ultimi decenni il livello di percezione e di coscienza collettiva in Italia è calato a livelli molto bassi, proprio rispetto al degrado raggiunto dalla parola. Parole come «straniero», «clandestino» che narrano di un volto, di una storia, di una vita senza diritto e dignità, sono state, infatti, svuotate e tradite (non sono state, cioè, trasmesse nel loro significato più alto).
Fine della politica come partecipazione
Siamo arrivati alla fine dell’autonomia della politica? Subordinata com’è all’economia e alla gestione mass-mediatica della sfera pubblica, nella migliore delle ipotesi, spinge verso la peggiore deriva populista. Del resto siamo schiacciati da un profluvio di pubblicità, che, sconvolgendo il nostro immaginario, ci avvolge con la sua rete. Ci cattura e ci impedisce di ripararci o di difenderci. «Se non ti senti cretino davanti alla pubblicità, lo sei» – mi ripete spesso un amico.
Negli ultimi due decenni è diventato difficilissimo dare corpo a una politica nel suo significato più profondo di partecipazione e d’impegno al bene comune. Tutto è fragile e precario, dalla costruzione di relazioni umane alle politiche per una giusta distribuzione del lavoro e della ricchezza. L’individualismo atomistico del fai da te è diventato l’incentivo implicito alla formazione di un senso comune totalitario.
L’omologazione mediatica della cultura nel paese non è un’invenzione di Berlusconi, ma è il compimento dell’ispirazione narcisistico/individualistica che ha caratterizzato la nostra vita pubblica in ogni suo aspetto. L’attacco ai partiti e a ogni principio di aggregazione ideologica ha seminato un qualunquismo individualistico, che ha fatto smarrire qualsiasi senso di appartenenza. Il Paese è diventato, in tutte le sue pieghe, alienato dai modelli culturali del sistema mediatico, perdendo così ogni senso critico e ogni passione per la libertà come partecipazione consapevole alle decisioni che riguardano il destino collettivo.
Davide Riesman, nel libro La folla solitaria, ha descritto i caratteri di un popolo senza autonomia di pensiero, che sarebbe presto caduto vittima di forme massificate di acculturazione. Anticipava profeticamente quello che poi è accaduto per effetto dell’offensiva neoliberista che, dagli anni ’70, ha soffiato sul nostro paese e sull’intero Occidente. Un individualismo liberista che ha creato le basi di una cultura del godimento immediato e la ricerca esasperata della propria soddisfazione narcisistica.
Il conflitto tra sapienza e intelligenza
La nostra generazione è costretta poi, sul filo stesso della cronaca, a constatare il conflitto tra una crescita d’intelligenza e un declino di sapienza. L’intelligenza cresce, spesso, a spese della sapienza.
È opportuno ricordarci, a disciplina del nostro spirito, che quando l’intelligenza strappa le sue radici da quelle che sono le grandi questioni del vivere, se ne va per la sua orbita e alla fine diventa criminale. Al massimo di sviluppo dell’intelligenza corrisponde il massimo di potere distruttivo, proprio come nel simbolo biblico di Lucifero, l’angelo intelligente, che avendo perso il suo rapporto equilibrato e armonioso con l’universo di Dio, diventa un’intelligenza perversa.
Si potrebbe dire, obbedendo alla suggestione delle parole, che il diavolo è l’essere soltanto intelligente, nel senso che la straordinaria potenzialità che è nell’intelligenza, sradicata dal cuore, e quindi da quel valore fondamentale che è il rapporto amoroso, diventa puramente distruttiva. È una specie di raggio laser che distrugge tutto quello che tocca. Noi lo sappiamo, costretti perfino a dubitare dei frutti che mettiamo sulla tavola, perché l’intelligenza dell’uomo potrebbe averli avvelenati.
Penso che compito della nostra generazione sia proprio quello di ristabilire i nessi tra le conquiste dell’intelligenza, che è stoltezza presa in se stessa, e il finalismo perenne della sapienza. Sapienza non è sapere perché ci siamo e perché moriamo, ma è il mettere in primo piano gli interrogativi, le domande. Le risposte sono difficili, ma la dignità dell’uomo non è nella risposta ma nella domanda.
Parole senza volto, inumane
La legge votata il 2 luglio 2009 (che comprende il reato di clandestinità) compie questa drammatica separazione tra parola e volto. Togliendo umanità alla parola, toglie umanità alla politica. Rompe l’unità della famiglia umana e ne offende la dignità. Prende piede l’idea che esistono esseri umani invisibili, di seconda e di terza categoria, un popolo di «non persone». Accettare questo è la perdita totale di senso morale, è la strada verso la disumanizzazione. Viene così distrutto quello spazio simbolico, dove accade che ognuno si presenti e pubblichi le proprie emozioni e speranze, e nello stesso tempo incontri le emozioni e le speranze degli altri, che è il bene comune.
Non si ferma il vento con le mani. E quando il vento sono persone umane, le nostre mani vanno protese incontro alle loro. La prima legge è l’ospitalità, segue la legge della convivenza: pari i doveri e pari anche i diritti, secondo le capacità e le necessità di ognuno.
Il vento della storia sono le migrazioni di popoli. È un vento che può scuotere le foreste ma le feconda. Le società chiuse sono incestuose, generano malati o si estinguono infeconde. Solo il meticciato feconda le civiltà. Come vogliamo definire questa società che con le nuove leggi ha equiparato il clandestino al delinquente, l’immigrazione alla criminalità e il razzismo è stato istituzionalizzato?
Da sempre il popolo adula il potere, s’identifica in esso. Oggi la strategia degli uomini di potere è quella di adulare il popolo, fargli credere, cioè, che dentro certe parole vuote vi è il tesoro che cercano, che nelle parole violente c’è il segreto per diventare padroni delle cose, padroni del mondo.
La sicurezza, basata sulla paura, sta diventando un alibi per norme ingiuste e dannose, per scaricare il malessere di molti italiani sugli immigrati, bersaglio facile sul quale sfoghiamo il tramonto di ogni etica condivisa e della testimonianza cristiana.
Quello che sorprende maggiormente in tutto questo è il silenzio della gente comune che non prova alcuna indignazione per quanto sta accadendo. La paura batte di molto la pietà. Sembra che la povertà più grande sia proprio la nostra, nell’assenza di coraggio, di umanità, di capacità di scommettere sugli altri, di costruire insieme una sicurezza comune.
Cercando una voce che parli parole nuove
Mi chiedo con una certa trepidazione, dove sia finita la profezia della Chiesa. La Chiesa italiana, visibilmente sofferente, è più impegnata a manifestare «la volontà di dominio in veste sacrale» che aperta al dovere dell’incarnazione. Non dimenticate l’amore per lo straniero. Alcuni, praticandolo, senza saperlo, hanno accolto degli angeli (Eb. 13,2).
Molti credenti restano turbati dagli interventi di qualche influente prelato su atti della legislazione italiana. Riconoscono all’episcopato diritto di parola nel dibattito, ma vedono che in quel modo la Chiesa appare parte tra le parti, a scapito di ciò che è essenziale: l’annuncio a tutti della buona novella, il sostegno alla testimonianza dei credenti e alla buona volontà di ogni persona.
Ho considerato il pianto degli oppressi e ho visto che nessuno li consola. Dalla mano dei loro oppressori non esce che violenza, si legge nel libro del Qohèlet, mentre nelle nostre fredde chiese si trascinano gemiti di un cristianesimo astratto, disincarnato, pauroso, solo spirituale, lontano dall’umanità e dalla storia.
Mai come oggi l’uomo ha bisogno di una luce che illumini il suo cammino, ma sempre più spesso sostituisce la vera luce, Dio, con qualcosa di apparentemente più facile da raggiungere: un idolo. L’idolatria del nostro tempo, infatti, ha messo il denaro, il successo e il potere al posto di tutto. Così il cristiano perde la sua natura di dissidente, risultando un cristiano di nome e non di fatto, a parole e non con le opere.
Non riesco a capire come delle persone, con forti motivazioni religiose e grandi ideali, siano appiattite sull’esistenza quotidiana, senza nessuno spazio di trascendenza.
Tutto quanto noi facciamo, compresa la politica, non ha senso se si esaurisce nell’istante e nel suo significato utilitaristico: resta preda della frammentazione, della ricerca autarchica di godimento, impedendo la nascita della cultura e della politica.
Come vedete non c’è tempo per il pessimismo, occorre riprendere la marcia subito e diventare portatori di domande, perché solo chi è portatore di domande, solo chi interroga, attende una risposta, apre una relazione.
La speranza non si confonde mai con l’ottimismo, perché sperare è sentire l’attrazione per un bene vero, riconoscendone la possibile emersione dentro le contraddizioni di un presente spesso drammatico o tragico. La speranza chiama alla resistenza.