Hoc est corpus
«Allora Socrate – disse l’amico Cebete sorridendo – prova a convincerci come se avessimo effettivamente paura, e anzi, come non fossimo noi ad aver paura, ma piuttosto quasi vi fosse un bambino terrorizzato da queste cose. Cerca di dissuaderlo dal temere la morte come uno spauracchio». Nel Fedone, Socrate fa i conti con il proprio corpo: il veleno appena sorbito sta facendo effetto e, a partire dagli arti inferiori, dilaga nel fisico, sclerotizzandolo. Sotto lo sguardo spaurito dei discepoli amici, il filosofo accompagna la propria anima verso l’incognita: lo fa cantando e pregando. Cebete cerca di dissimulare, ma la sua paura si palpa: come con un bimbo di fronte al buio della notte, con lui i ragionamenti sull’immortalità dell’anima non sono serviti. Non resta che farsi cullare, abbandonarsi alla ninna nanna, accarezzare le corde del cuore.
Il cuore profondo della ben rotonda verità parrebbe questione di testa, di logos puro. La risposta che cerchiamo nella nostra vita sembrerebbe una questione razionale: penso dunque sono. Lo strabismo cartesiano ci ha contagiati e nell’era del trionfo della scienza applicata, sedotti dal mercato, sembriamo disponibili a qualsiasi soluzione, pur di star bene: dalla pasticca per il mal di testa, al farmaco che guarisce dallo shopping compulsivo, dalla soia ogm alle droghe sintetiche (quale sballo vuoi, stasera?), dai ritocchi al dna al prolungamento indefinito della vecchiaia… Abbiamo a disposizione un corredo pressoché infinito di risposte capaci di indirizzare il corpo ove la mente voglia. E se il corpo pare un ingombro, l’esistenza virtuale garantisce viaggi stellari dalla poltrona di casa. Il calcolo tecno-scientifico è una ragione sradicata a disposizione del denaro.
Se mi chiedo «chi sono io?» la testa arranca: le note anagrafiche sono un nulla, fiati di voce burocratica; il ruolo che la società mi ha dato (classe sociale, professione, posizione) sono una targhetta plastificata che dismetto appena esco dal mio ambiente; l’elenco delle cose che ho fatto e che faccio possono essere medaglie appuntate sul petto, o polvere da nascondere sotto al tappeto. Ma se ti chiedo «chi sono io per te?» ecco che già la semplice attesa della risposta, mentre ti guardo negli occhi, provoca una tempesta emotiva nella mia pancia. Quando poi la tua parola mi avrà consegnato un micro-segmento di identità, mi sembrerà di avere un po’ di pace. Queste emozioni siamo noi: nulla di definitivo, ma in quel momento, quando la testa si sarà finalmente chinata ad ascoltare il cuore, io saprò chi sono.
Il corpo ha sempre ragione, dice qualcuno. Il corpo non mente mai, dice qualcun altro. Tutto sta nell’ascoltare questo corpo che parla. Bisbiglia appena nei meccanismi alienanti del quotidiano, ma poi urla i suoi bisogni, fino a lacerarsi nelle nevrosi, confondendo la testa per sfuggire alle inibizioni nei giovani dell’ennesimo spritz serale, scomparendo poco a poco nel grido di richiamo dell’anoressica, esibendo il potere dell’animalità nelle forme anonime della genitalità femminile in compravendita.
Il corpo viene usato come uno strumento, oppure si rivela d’impaccio. Una società che ghettizza la gravidanza è una società che denuncia il suo disagio nei confronti del corpo. Le forme lievitano e la donna impara un alfabeto nuovo, una lingua senza parole ma piena di significato. Eppure deve fare in fretta perché il lavoro non attende, perché il capo ha lanciato un tacito ultimatum. La sapienza ignorante dei nostri nonni stabiliva quaranta giorni di letto per la puerpera, avvicinabile solo per l’allattamento, mentre le altre donne di casa pensavano al resto. In quella ignoranza stava la saggezza capace di evitare le depressioni post-parto. Non sempre forse, ma spesso.
La verità di quel che siamo non è capita e poi forse sentita. Il percorso non parte dalla testa, ma va al contrario: vivo, percepisco, sento e solo alla fine capisco.
Giovanni Realdi
insegnante di storia e filosofia,
componente la redazione di Madrugada