Ho paura della tua paura
Il pregiudizio
La diffidenza
Il timore dell’estraneo, del diverso, affonda nella notte dei tempi. È radicato nella nostra memoria più antica e si riattiva anche oggi, suscitando emotivamente reazioni di rifiuto quando la vicinanza con l’altro, definito come straniero, pone un interrogativo alla nostra identità. È una diffidenza reciproca perché ci dis-conferma indirettamente la nostra identità individuale e culturale, il nostro distinguere tra «sicuro» e «incerto», tra «buono» e «cattivo». Ciascuno di noi interpreta l’altro secondo proprie categorie mentali e culturali sulla base di categorie socialmente costruite grazie alla propria formazione e alla pressione dei media. La domanda che sorge dopo il confronto è: con quali occhi e con quale filtro io interpreto le dinamiche di una famiglia o di una coppia che sia di cultura o religione diversa dalla mia? Ho già stereotipi o pre-comprensioni che mi orienteranno a fare rientrare le persone, gli uomini, le donne e i loro figli nei miei pensieri ricorrenti e talvolta rituali su di loro?
Noi e gli altri, l’appartenenza
Sicuramente i primi semi del pregiudizio nascono nell’educazione familiare. È nella famiglia che i bambini cominciano a distinguere il contesto familiare da quello estraneo, il noi e gli altri, perché i genitori sono preoccupati della loro incolumità. In famiglia, consciamente o inconsciamente, nascono le differenze costruite per opposizione, per cui vengono esaltati i tratti che accomunano una determinata comunità in contrapposizione a chi non li possiede. Poi ne segue il giudizio, che oppone la propria comunità (sempre giudicata buona o superiore) a quella di altri (giudicata cattiva o manchevole di qualche caratteristica e quindi inferiore).
Le famiglie tendono a costruirsi e a riconoscersi in un’ideologia sociale strutturata, che inizialmente è un tratto positivo e costitutivo della propria identità e appartenenza, ma che poi talora diviene meccanismo inconsapevole di selezione delle persone da far entrare nella propria casa e questo costituisce già una base di lettura del mondo che i figli interiorizzano senza esserne consapevoli.
Il pregiudizio
Bisogna sottolineare che il pregiudizio in sé non possiede valenze particolari, essendo un meccanismo di economia mentale che ha il fine di aiutare una persona a riconoscere in modo veloce eventuali pericoli. Diventa una prigione e un impedimento alla relazione quando lo si scambia per realtà, per cui la persona in carne e ossa viene identificata con le caratteristiche generali attribuite alla categoria etnica. Nei bambini basta un commento, un discorso tra adulti, un movimento di paura verso simboli differenti dai propri per assimilare una simbologia negativa. Molte famiglie strutturano poi visioni del mondo dicotomiche: chi è simile a sé, anche per possibilità economiche, viene accettato; chi, invece è estraneo al proprio ambiente sociale e culturale viene allontanato o trattato con sufficienza. Una dicotomia che si perpetua anche nella scuola, laddove per pubblica si intende la possibilità di un mescolamento per etnia, censo, e origini, mentre per privata si intende omogeneità protetta, sicura e tranquilla. Il censo e le distinzioni socio-economiche e le ghettizzazioni urbanistiche fanno il resto, ponendo il suggello a differenze che sono state il prodromo politico di assenza delloàStato e delle istituzioni civili, dell’abbandono e della nascita del «diritto contro a prescindere» di ogni rivolta di area sub-urbana nelle megalopoli.
Nella costruzione del pregiudizio negativo si distinguono tipicamente quattro fasi concatenate: la semplificazione, che presenta le persone appartenenti agli stessi gruppi etnici o religiosi come uguali, senza differenze tra loro; la categorizzazione, con la quale le persone vengono raggruppate secondo convenienza, tratti fisici, religiosi o nazionali; la stereotipizzazione, con la quale si definiscono arbitrariamente caratteristiche fisiche, morali e comportamentali; infine, il pregiudizio negativo, con il quale si attribuiscono connotazioni aprioristiche sulla base erronea dei nostri valori.
L’annidarsi nella società del pregiudizio comporta la «costruzione del nemico» ritenuto socialmente pericoloso secondo il ragionamento «se noi non distruggiamo loro, saranno loro a distruggere noi».
L’importanza dei simboli
Non esiste un linguaggio più potente e coinvolgente di quello dei simboli. La conflittualità che sta caratterizzando i fatti di cronaca delle nostre città è la dimostrazione che i simboli sono diventati strumenti per affermare la propria identità, per definire le nostre paure, per reagire a quella altrui.
La potenza dei simboli e la reazione che questi generano è confermata dai recenti avvenimenti tragici del Charlie Hebdo e prima ancora dalle vignette con le caricature del profeta Maometto,àpubblicate nel 2005 da un giornale danese. La convivenza umana esige un clima di reciproco rispetto. Le forme di critica esasperata che denotano la mancanza di sensibilità umana dovrebbero essere bandite. L’occidente è allenato alla tolleranza, mentre l’oriente lo è meno. L’occidente democratico ci ha insegnato che un principio assoluto va comunque rapportato alla realtà del momento in cui esso viene applicato. Non si tratta solo di invocare l’intangibilità del sacro, si tratta di fondare il dialogo sul riconoscimento dell’altro da sé, delle sue sensibilità, del suo punto di vista, dei suoi simboli, delle sue paure.
Per una convivenza multiculturale
Quanto espresso non nega il fatto che in ogni comunità, soprattutto se familiare, la convivenza richieda a tutti un difficile impegno di disponibilità, comprensione e condivisione che sarebbe retorico sottovalutare. Con questo non ci si vuole riferire a una volontà collettiva di tolleranza o di sopportazione, bensì a principi di legittimità e di diritto all’esistenza di differenti identità. La stessa realtà sociale di oggi è articolata in una pluralità di tipologie familiari nelle quali le origini dei componenti esprimono differenti forme culturali, differenti bisogni e aspettative. È dunque tempo di abbattere le paure e puntare sulla legittimità delle diverse istanze su cui poggia la convivenza multiculturale: una grande scommessa per il futuro della società e soprattutto della famiglia.