Haiti e la filantropia da disastro
La tragedia apocalittica di Haiti ha, come tutto ciò che richiama questo contesto prossimo all’imponenza del Giudizio Finale, l’idea del limite ultimo. «Eskatos» significa sì ultimo, ma anche il più grande, il più alto, l’estremo.
Di questa estremità oggi noi percepiamo soltanto una sensazione che passa attraverso le immagini della distruzione che non ha risparmiato nulla, dalle catapecchie di Port-au-Prince al palazzo presidenziale che era stato dei Duvalier, generazione di dittatori crudeli e violenti, dai bimbi figli della miseria ai pochi agiati di un Paese che ho sempre conosciuto come Stato-favela, che è la manifestazione somma della contraddizione.
L’escatologia rende tutti uguali, appiana le differenze, lima le escrescenze, riduce tutto a un «unicum» dove si percepisce immediatamente l’uguaglianza davanti all’immensità, a volte tremenda, della creazione. Nell’escatologia si conosce il fondo, l’arrivo, il capolinea.
Allora il disuguale è diventato uguale e con ciò ha mostrato quanto fosse ingiusta e vana quella disuguaglianza. Oggi tutti corrono e soccorrono, promuovono sottoscrizioni, lanciano appelli, stendono reti di una presunta solidarietà, che fino a qualche giorno fa era semplicemente inesistente.
Questa tragedia mi rende ancora più consapevole che la misura del capitalismo può mostrarsi nel momento in cui un evento escatologico lo denuda.
Haiti è sempre stato un Paese poverissimo, miserrimo, quasi disperato, vittima di un abbandono endemico che addirittura non prevedeva lo sfruttamento. I poveri di Haiti erano talmente poveri da non potere nemmeno essere prosciugati. Con un tasso di analfabetismo prossimo al 90% tra gli adulti e comunque altissimo anche tra i ragazzi, Haiti sprofondava da quasi due secoli in una condizione paradossale, che evidenziava la capacità dell’uomo di farsi beffa di Dio, generando e mantenendo una miseria che richiamava l’escatologia del peccato. Ecco, il peccato ultimo, il peccato più alto, il peccato più grande.
Poi è arrivato il terremoto ed è bastata la furia della natura, solo per un minuto, per graffiare via l’ipocrisia e la menzogna. Noi proviamo orrore perché amputano le gambe dei bimbi sulla strada con seghe rudimentali e non ne abbiamo mai provato per un tasso di mortalità del 300 per mille, che ancora ieri flagellava questo popolo? L’escatologia apocalittica di quella gente non si rivela attraverso le telecamere del presente, ma all’ombra della silenziosa e lancinante sofferenza dei decenni passati. Per fuggire da questa apparentemente invincibile maledizione molti haitiani hanno invaso New York e lavorano come tassisti nella Grande Mela. Me li ricordo bene. Chi invece non ha potuto godere di questa fortuna restava nelle vie polverose di un Paese che di fatto non aveva nemmeno il turismo organizzato, ma tutt’al più solo le favole del «vudu».
È bastato un terremoto breve e cattivo per rivelare l’ennesima ipocrisia sacrilega di un Occidente ateo, sia in senso religioso che civile, senza un Dio misericordioso e amorevole, un Occidente adorno solo della sua «filantropia da disastro».
Certo, è parso quasi un accanimento sadico, perché non poteva arrivare un terremoto così devastante proprio là, e invece forse si è trattato soltanto di uno scacco e di un avvertimento forte. La corsa sgangherata verso Haiti è oggi la fine cinematografica di un sistema che aveva già mandato in agonia milioni di poveri prima che un sisma li seppellisse e, quasi paradossalmente, li mostrasse al mondo come vittime già sacrificate fin dalla nascita.
Che Dio ci perdoni. Ma Dio ci perdona, perché ogni escatologia culmina nell’amore benevolo di questo Dio.
Che fa a pezzi ogni «filantropia da disastro».