Generare notizie false. La veritàànon ha più alcun valore
«Ciò che sappiamo della nostra società, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass media». Niklas Luhmann
I social media producono la versione ufficiale della realtà così come oggi noi la conosciamo. In questa prospettiva, gli articoli che seguiranno proveranno a dare forma a una riflessione critica che possa chiarire cosa ne sia della partecipazione democratica e della sfera pubblica dentro le logiche e l’architettura dei social media.
Già Geert Lovink, nel 2012, con la sua interessante critica dei social media e se pure da una posizione ottimistica, avvertiva come il sistema digitale rischiasse di far venire meno la distinzione fra reale e virtuale, unitamente al rischio di consegnare al web l’intera memoria storica di un’epoca. Ma ancor più utile al nostro discorso è soffermarsi sul luogo in cui si sgretolano le speranze di Lovink a proposito del ruolo che avrebbero potuto giocare le reti nell’ambito culturale e politico. Se il teorico olandese non sembrava infatti nutrire dubbi sul fatto che l’avvenuta convergenza tra vecchi e nuovi media potesse offrire l’occasione – attraverso le pratiche orgnet – di sostituire progressivamente l’attuale rappresentazione dello stato liberal-democratico, riappropriarsi della produzione dell’opinione pubblica ed esercitare una sorta di contro-potere, si può oggi ritenere questo progetto fallito. Ed è forse questo il crocevia da cui prende le mosse il contributo del giornalista Diego d’Ippolito il quale, con Bobbio, mostra come il sistema integrato della rete sia riuscito a realizzare il sogno che ha ossessionato il potere fin da prima della modernità, ossia quello di vedere meglio e di vedere tutto.
L’architettura del web ha sì messo in crisi il sistema democratico, ma non in direzione del suo superamento quanto piuttosto nella prospettiva di una deriva liberista e totalitaria. Con il paradosso per cui tale processo si è realizzato non solo senza alcuna coercizione degli individui, ma addirittura con il loro spontaneo consenso. Come sottolinea l’autore con assoluta chiarezza, infatti, «poco più di dieci anni fa, abbiamo iniziato a condividere i nostri sentimenti, le nostre informazioni, le nostre foto, le nostre mutevoli idee in rete. Scrivevamo, senza volerlo capire, la nostra storia, davamo corpo ed emozioni alla nostra carta d’identità, diventavamo profilo, consumatori, valore» (un’interessante rappresentazione degli effetti di questa profilazione degli individui tout court, condotta sapientemente ai suoi estremi attraverso l’introduzione della figura del cyborg, la si può trovare nella fortunata serie Westworld, prodotta nel 2017 dal network HBO).
Le reti, per definizione, spingono infatti ad astenersi dall’anonimato in ragione di una posticcia autopromozione individuale, il cui effetto primo è quello di collaborare al proprio stesso profiling. I social media, in questo modo, confiscano i nostri dati, li trasformano in valore di scambio e li consegnano agli interessi commerciali delle multinazionali. L’effetto è quello di un’inevitabile riduzione della creatività e molteplicità del sé, eterodiretto verso i cosiddetti legami deboli e soprattutto incitato a esporre al mondo tutti i propri dati personali e professionali. È questo il lato più allarmante dell’analisi, la consapevolezza che visibilità e trasparenza non sono più i segni di apertura democratica, ma di disponibilità all’essere totalmente amministrati.
Tema, questo delle relazioni umane, cui si agganciano le riflessioni di Michele Kettmaier, il quale, al termine di una breve rassegna storiografica sul rapporto fra verità e vecchi e nuovi media, pone l’attenzione sulla questione del vero all’interno dei rapporti umani. Il punto di partenza dell’analisi di Kettmaier apre lo spazio a una serie di inquietudini e domande. In particolare, se stanno così le cose, se dunque l’epoca in cui viviamo è contrassegnata dalla post-verità, ossia da una condizione nella quale la questione della verità non ha più alcun valore, che ne è dei rapporti umani? Del resto, come costruire una verità relazionale all’interno di una piattaforma che nella sua stessa architettura rimuove il conflitto, dunque la possibilità di un confronto reale, in funzione di una sorta di religione del positivo incarnata dal tasto mi piace e da una rappresentazione a senso unico delle relazioni, dove l’unica opzione possibile è «diventare amici» di qualcuno? Per dirla diversamente, quale spazio etico e sociale può ancora darsi se nell’economia, questa sì liberista, dei social media i rapporti umani si fondano in ultima istanza sull’accumulazione? (degli amici, dei commenti, dei like).
Servono, forse, strumenti di cui ancora non disponiamo. Soprattutto serve un nuovo linguaggio per un campo di oggetti e forme simboliche altrettanto inediti, che nascono nel e per il cyberspazio e quindi non sono interpretabili attraverso le vecchie categorie del pensiero. In questo senso, il ricercatore Oscar Ricci ci dà una preziosa panoramica dell’ambiguità delle nuove parole, il cui significato non ha più alcuna familiarità con il metodo dialettico, perché risponde ad altre logiche. È questo il caso, per esempio, delle fake news. Tentare di ricondurre questo fenomeno alla classica contrapposizione tra il vero e il falso è infatti un po’ come abbaiare alla luna. L’intreccio magico fra tecnica e linguaggio, nel caso delle fake news, conferisce ai loro contenuti un potere performativo i cui effetti non possono essere contrastati attraverso il semplice ricorso alla veridicità delle fonti e che vanno presi in considerazione come oggetti reali.