Figli di migranti: quali strade nell’integrazione?

di Bruni Alessandro

L’opinione pubblica è molto presa dal processo di integrazione dei migranti di prima generazione (quelli che hanno scelto di vivere in Italia), a causa delle condizioni miserevoli di arrivo e quindi dei loro bisogni di sopravvivenza e dai fatti di cronaca che attribuiscono atti delinquenziali.

Stranieri sempre meno integrati? È un luogo comune duro a morire. Secondo uno sudio inglese, infatti, basta una generazione perché le abitudini dei migranti cambino, allontanandosi da quelle del Paese di provenienza. La ricerca, guidata dall’Università di Exeter e pubblicata su Plos One, ha studiato la comunità del Bangladesh del London Borough of Tower Hamlets, un quartiere a Est della capitale britannica dove i bengalesi rappresentano il 32% della popolazione totale. In linea con gli studi precedenti, i ricercatori hanno trovato differenze tra le caratteristiche psicologiche dei migranti di prima generazione e quelle dei residenti in Gran Bretagna, figli di persone nate e cresciute in Inghilterra. Per esempio, le persone cresciute in Bangladesh tendono al collettivismo, dando molta importanza alla famiglia, alla comunità e al lavorare in gruppo. Gli autoctoni che vivono nella stessa zona di Londra tendono in media a comportamenti molto meno collettivistici. Un altro esempio riguarda il modo in cui le persone spiegano i comportamenti: per esempio, uno studente bocciato a un esame viene considerato dagli inglesi autoctoni non abbastanza intelligente, oppure pigro. I bengalesi di prima generazione, invece, riferiscono che il ragazzo è stato bocciato perché non è stato abbastanza aiutato o a causa della pressione competitiva scolastica. Secondo gli autori della ricerca, però, in appena una generazione, queste differenze si riducono notevolmente. In media, i figli di bengalesi inglesi si dimostrano meno collettivisti dei loro genitori e per le azioni delle persone puntano maggiormente il dito sulle responsabilità individuali. Il cambiamento avviene nonostante la seconda generazione conservi affinità culturali con i propri padri, come la religione e la lingua. Questa ricerca getta una luce interessante, ma non nuova, sulla comprensione del processoàdi integrazione dei giovani di seconda generazione di migranti.

Con la mia famiglia sono impegnato a seguire un bambino di sei anni pachistano e una bambina di nove afgana per agevolarli nella conversazione in italiano. Entrambi sono stati segnalati per le difficoltà di integrazione scolastica. Tuttavia la loro condizione in effetti è differente.

Il primo (Fizan) parla pochissimo l’italiano e vive in una famiglia in cui ci si esprime solo in hurdu, si vedono programmi televisivi pachistani e in cui solo il padre riesce a esprimersi in un italiano discreto. La madre vive la quotidianità familiare con pochi contatti con la realtà sociale di contesto rimanendo isolata in attesa del marito, che lavora intensamente per tutta la giornata.

Per la seconda (Aliza) la situazione è differente: parla discretamente l’italiano, è scolasticamente inserita nella classe, è divenuta elemento mediatore tra famiglia e contesto sociale italiano, in famiglia cercano di non parlare la loro lingua di origine sforzandosi di conversare in italiano, guardano i programmi televisivi italiani e spingono la figlia all’autonomia. Sono stati direttamente i genitori a chiederci di aiutare la figlia per aumentare le sue competenze linguistiche di italiano, senza aspettare un intervento del servizio sociale o scolastico.

Fizan ha la stessa età di mio nipote Lorenzo che vive a Barcellona. Anche mio nipote è un migrante di «seconda generazione» e a scuola si esprime correntemente in catalano e in castigliano, mentre a casa si esprime in italiano (con un leggero accento veneto…). Appare chiaro che il problema non sta nei bambini, ma nella famiglia e il processo di integrazione deve coinvolgere innanzi tutto i genitori, non per farli divenire come gli italiani (ovvero con unaàintegrazione che annulli le loro diversità), ma per far loro acquisire il senso comune della cittadinanza italiana, della relazione sociale, del rapporto con gli altri a qualsiasi etnia appartengano.

Mentre scrivo queste cose, Svetlana ha bussato alla mia porta e mi è venuta a chiedere come può fare con sua figlia nella prima adolescenza, che fatica a integrare il suo modello familiare e la sua origine ucraina con il modello familiare dei suoi compagni italiani. Gli stessi problemi che già noi abbiamo affrontato con i nostri figli. La vita nel quotidiano ci porta cose assolutamente comuni, condivisibili, mentre gli stereotipi di chiusura all’altro ci portano solo pregiudizi ingiusti e deleteri e soprattutto allontanano la comprensione e il riconoscimento reciproci.

Per Sassen, autrice di Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale (Il Mulino, Bologna 2015), bisogna criticare chi alza muri e reclama nuovi confini, ma bisogna anche preliminarmente e «concettualmente» rendere visibili gli invisibili, illuminare le soglie, scoperchiare i limbi. Capire le nuove soglie dell’esclusione non è mero esercizio accademico. È una necessità per una società civile che rischierebbe, altrimenti, di venir meno ai suoi presupposti. Queste soglie «sono tantissime, stanno crescendo e vanno diversificandosi. Sono potenzialmente qui i nuovi spazi in cui agire, in cui creare economie locali, nuove storie, nuovo modi di appartenenza», spiega Sassen. Ma per riuscire ad agire bisogna prima capire.

Alessandro Bruni
già docente e preside alla facoltà di farmacia università di Ferrara,
componente la redazione di Madrugada