Fare teatro… a passi sospesi
Perché il teatro in carcere
Sono tanti i motivi che mi convincono a sostenere l’utilità e la pregnanza di un progetto teatrale in carcere. L’attività teatrale mette in moto risorse, lavora sulla relazione e l’aiuto reciproco, promuove il senso sociale, riattiva appartenenze. Contribuisce a restituire dignità, fiducia, capacità di pensarsi e anche di mostrarsi diversi dal ruolo «deviante» in cui si è stati relegati. L’esperienza teatrale è soprattutto un potente strumento di cambiamento, un’occasione di ri-pensamento, in totale sintonia con l’obiettivo del recupero sociale.
Viviamo in un tempo in cui i mezzi di comunicazione riportano spesso la cronaca di eventi drammatici e di situazioni esplosive in carcere. È complesso trovare soluzioni nell’emergenza ma sappiamo per esperienza che l’attività teatrale, di per sé, favorisce un pensiero critico e propositivo, attraverso la partecipazione attiva a un progetto collettivo. Offre cioè un «territorio franco», dove culture differenti si approcciano tra loro attraverso canali comunicativi diversi da quelli abituali. Nell’esperienza teatrale si abbassano le resistenze e le diffidenze, si instaurano relazioni che mirano a una civile convivenza, che niente ha a che vedere con le logiche di prepotenza o di omertà tipiche di un ambiente separato e costretto come quello carcerario.
Il teatro, attraverso una conduzione competente e una metodologia precisa, crea un habitat, ancor prima che espressivo, pedagogico ed educativo, dove l’impegno, la disciplina, il rispetto, la messa in gioco, le stesse regole diventano la trama di una complessa composizione. La pratica teatrale offre al recluso un duplice sostegno: aiuta a ricordare percezioni e sentimenti offuscati dalla routine carceraria, facendone scoprire di nuovi; spinge ad attivare forme essenziali di interazione e di solidarietà, intendendo lo spettacolo come un’impresa collettiva.
La «terza cultura» del teatro
Il teatro è una comunicazione interpersonale da recuperare come scelta di una «terza cultura»: una cultura che è selvaggia e imprevedibile, assimilabile in un certo senso al Terzo Mondo, un qualcosa che il resto del mondo spesso consideraàcaotico, indisciplinato.
Una «terza cultura» che richiede adattamenti continui e in cui i rapporti non saranno mai stabili e definiti per sempre. Una cultura dei legami, una forza che può controbilanciare la frammentazione del nostro mondo e che consiste nello scoprire quelle relazioni che sono state sommerse e che sono andate perdute: quelle tra uomo e uomo, tra una razza e un’altra, tra microcosmo e macrocosmo, tra visibile e invisibile.
La specificità femminile
Le attrici detenute alternano spesso momenti di grande coinvolgimento ad altri di ansia nel presentarsi al pubblico. All’ansia che tutti possono giustificatamente provare nell’esporsi alla visione di un pubblico e nel relazionarsi a esso, nelle detenute donne si aggiungono altri elementi, che meriterebbero riflessioni di ben altro spessore, ma che per ora racchiudiamo in pochi cenni: il tema della bellezza e la consapevolezza (o meno) che sul proprio corpo si portino i segni della tossicodipendenza. Che il corpo delle donne sia al centro di molte attenzioni nella società, e lo sia sempre stato, non è certo una novità, ma in questo caso esiste una specificità tutta femminile e tutta legata al mondo della tossicodipendenza.
Nel caso delle attrici detenute vale la pena considerare come questo corpo che viene «esibito» a un pubblico sia fonte di molte emozioni, spesso ambivalenti: vedersi con gli occhi di chi ci guarda, sapere di portare su di sé i segni della propria storia ai margini della società, necessità e allo stesso tempo paura di recuperare una fisicità che, al momento della detenzione, viene negata, poiché il corpo, strumento di comunicazione umana per eccellenza, viene separato dal resto del mondo.
Perché un’attività teatrale in un ambiente carcerario femminile?
I perché sono molteplici e hanno tutti a che fare con la scelta di una pratica, quella teatrale, che deve mirare a stimolare, nelle donne recluse, la riscoperta del proprio corpo da tempo martoriato e mortificato dalla violenza opaca delle sostanze o da quella familiare. Favorire cioè la presa di coscienza della propria condizione per imparare a trasformare le fragilità in attività, la passività in progettualità, attraverso la creazione e la messa in scena di personaggi simili e diversi. Sperimentando la possibilità di vedersi e farsi vedere in ruoli diversi da quelli consumati nel passato, riconquistando il senso della cura degli altri e di sé, attraverso la creazione di una storia collettiva, dai primi gesti allo spettacolo.
Un’attività che mira a scalfire l’equazione diversità = distruttività, attraverso un viaggio nelle mappe impolverate della creatività, e a fornire strumenti di crescita, di responsabilità, di iniziativa a soggetti che hanno disimparato a scegliere.
Un’attività che si basa sulla ricerca di nuovi gesti, di voci in coro, di sguardi aperti, di conquiste e gratificazioni, di impegno e di disciplina, di memorie passate e di un presente di pensieri, parole, storie, contrasti, rotture, scelte infauste. Un’attività che consenta, attraverso la grammatica teatrale, itinerari attraverso dimensioni «altre», differenti da quelle quotidiane ma in totale coscienza e lucidità.
Immaginazione contro emarginazione
L’immaginazione induce a valorizzare un meccanismo teatrale dell’interazione sociale, quello di scoprirsi scoprendo gli altri. Laddove il comportamento coatto è fondato su obblighi e rimozioni, che inducono a introiettare lo stato di emarginazione. Se è poi la droga la causa efficiente della disgrazia, si determina una catena di raddoppiati meccanismi autodistruttivi, e la droga è all’origine del carcere per la maggioranza dei reclusi.
La rivelazione di un’attrice in carcere non può non riguardare anche la rivelazione della persona, la donna detenuta non può rimuovere il suo stato di costrizione, quando prova a evadere per via artistica, pur essendo mentalmente altrove.
L’azione teatrale
Qui trova fondamento l’azione teatrale, in quanto azione che proviene anch’essa dalla mente, ma con modalità opposte, collettive anziché individuali, controllabili anziché dominatrici, coinvolgenti anziché introverse, portatrici di arricchimento affettivo e artistico, anziché di coazioni a ripetere. Pur limitata all’ambito della comunicazione espressiva, la pratica teatrale induce a reagire ai meccanismi di dissociazione che intaccano il comportamento, poi la personalità, poi la psiche e il principio di solidarietà della persona, che è argine fondamentale nella vita degli umili. Il laboratorio di teatro mira alla riattivazione dell’individuo attraverso la comunicazione interpersonale offerta dall’espressione scenica.
* Il progetto teatrale «Passi Sospesi» di Balamòs Teatro è attivo dal 2006 negli istituti penitenziari di Venezia. Dal 2010 il progetto prosegue presso la Casa di Reclusione Femminile della Giudecca.
Michalis Traitsis
sociologo, regista, pedagogo teatrale
e direttore artistico di Balamòs Teatro
(membro fondatore del Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere)