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Nel 2014 si celebreranno le elezioni europee tra le più complesse di sempre. Da una parte una crisi economica che continua a farsi sentire forte e che promette di allentarsi quasi ovunque tranne che nell’UE; dall’altra parte la crescita di partiti euroscettici, antieuropeisti o a favore di un ritorno alle divise nazionali. Parallelamente, e in controtendenza, il 1° gennaio 2014 la Lettonia ha iniziato a usare l’euro e, poco prima, in Ucraina un forte movimento di opposizione al governo protestava per potersi avvicinare maggiormente all’Europa e allontanarsi da Mosca, che vuole integrarla in una propria area di libero scambio. Non è una novità l’alternarsi di sentimenti a favore e contro l’integrazione. Oggi, venendo da un periodo di fortissima spinta alla globalizzazione e internazionalizzazione, è abbastanza naturale che sorgano movimenti che imputano a questa integrazione l’attuale situazione economica. Partendo da disagi oggettivi, una galassia di movimenti e partiti di ogni colore politico o sedicenti apolitici propone un’uscita dall’euro o addirittura la fine del mercato comune come soluzione alla crisi. In molti hanno anche sviluppato una storia parallela che racconta di un’età dell’oro prima dell’euro, promettendo un ritorno a essa. Se l’unione europea, l’unione monetaria e la costituenda, timida, unione bancaria hanno evidenti problemi di struttura, di funzionamento e di lentezza di reazione alle urgenze che si verificano, l’uscita dall’euro potrebbe avere conseguenze ancora peggiori. È opportuno considerare queste proposte e capire il motivo per cui sono pericolose, anche se alcuni elettori le possono reputare di buon senso.
La prima proposta di questi movimenti è che, uscendo dall’euro, potremmo riappropriarci della nostra sovranità monetaria. In pratica si tratterebbe di fare svalutazioni per rendere competitive le nostre merci all’estero e di stampare moneta per ripagare il debito. Sappiamo già, dai decenni in cui abbiamo praticato le svalutazioni della moneta, che queste hanno un effetto solo di breve termine sulla competitività, che puntano tutto sulla competizione del prezzo delle merci e non risolvono il problema, forte, strutturale, di innovazione che abbiamo nel paese. Di fatto si tratta di prendere una scorciatoia verso il burrone e rendere più forte la caduta. Per quanto riguarda lo stampare moneta per ripagare il debito, questo equivale a dire che il governo non è in grado di ripagarlo e quindi fa parziale default, con tre principali conseguenze. Innanzitutto una perdita di valore dei titoli di stato italiani (detenuti per il 13/15% da famiglie italiane e 55% circa da imprese e banche italiane), con conseguenze sulle ricchezze private e sul sistema produttivo e creditizio. La seconda è che per ripagare il nostro ingente debito occorre molta moneta e quindi ciàsarebbe una forte inflazione. Se dal 2002 (entrata in vigore dell’euro) a oggi i prezzi sono aumentati del 30% (in media non sono raddoppiati, come vuole la leggenda diffusa a partire dal giorno dopo l’entrata in vigore dell’euro), il ritorno alla lira potrebbe portarci un’iperinflazione, con perdita di valore di patrimoni e di salari fissi. La terza conseguenza è che facendo default, anche parziale, sarebbe più difficile per il nostro paese chiedere sul mercato i soldi necessari per finanzarci con un aumento forte della spesa per interessi sul debito pubblico. Tutta questa proposta si basa sulla violazione di un principio base dell’economia, anche domestica: la presenza di un vincolo di bilancio. Non si può spendere sempre sopra le proprie possibilità accumulando debito, prima o poi occorre ripagarlo. Uscire dall’euro per ripagarlo con moneta propria prodotta in quantità sufficiente sarebbe come voler pagare i debiti con le banconote del Monopoli una volta scoperto che il nostro conto corrente è a secco. Non dimentichiamo che, da quando siamo entrati nell’euro, abbiamo beneficiato di una riduzione dei tassi di interesse per il pagamento del debito che ci ha fatto risparmiare, secondo le stime, da 200 a 700 miliardi di euro. Non averli usati bene è una responsabilità non dei politici, ma nostra, in quanto elettori che hanno scelto alcuni e non altri.
La seconda proposta, più forte ancora, è addirittura la rottura del mercato unico europeo. Di fatto vorrebbe dire reinserimento di barriere al commercio, costi di transazione, non omogeneità delle legislazioni, e così via. Questo si traduce ovviamente in un aumento dei costi delle merci importate e in un aumento dei costi per esportare i nostri prodotti. Si stima che la fine del mercato unico possa causare in media un crollo del reddito procapite annuo di circa 5-6 mila euro.
Vi sono poi proposte minori, che vanno tutte nella direzione di una maggiore autarchia e chiusura. Si vorrebbe incanalare la rabbia degli elettori verso soluzioni semplici e rapide, identificando un nemico comune esterno, come l’euro, mentre si dovrebbero risolvere problemi strutturali come un’insostenibile dualità nel mercato del lavoro che, oggi, privilegia la generazione dei padri e i lavoratori in grandi imprese e penalizza giovani e lavoratori precari, o come un sistema di welfare che garantisce, dalla culla alla tomba, le generazioni dei padri e dei nonni, lasciando alle dipendenze della famiglia le generazioni piu giovani. Richiedono capacità di de-ideologizzarsi, di pensare in modo complesso e con competenza. In un mondo complesso il buon senso non basta. «Urge trovare modi per fare amare la complessità, invece di averne paura» (Wu Ming).