Essere terminali e vivere nella dignità

di Bruni Alessandro

Nel marzo del 2010 il Parlamento italiano ha approvato la legge 38 che sancisce «il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore». A distanza di 5 anni il suo livello di implementazione e applicazione nei vari ambiti assistenziali, è ancora parziale, forse ancora per un lascito più pietistico che di reale rispetto di diritti umani. Per contro, il numero di persone giovani e meno giovani con malattie inguaribili di diversa natura è in continuo aumento anche nel nostro paese. In altri paesi questo cammino è già iniziato da tempo. Attualmente in ambito anglosassone si insiste molto sulla differenza fra «cure» e «care»: la prima è una cura riparativa e medicalizzante, la seconda è invece una cura che non si rivolge a una patologia o a una mancanza, ma che agisce nel senso di promuovere lo sviluppo e la dignità di una persona che si avvia a morire. L’applicazione del «care», ovvero del prendersi cura, passa attraverso un desiderio di alterità che è antropologicamente proprio dell’uomo, ma non è un percorso facile, specie considerando le malattie mortali e la vecchiaia. Sono queste due condizioni che alterano la prospettiva egoistica e onnipotente dell’uomo e lo pongono di fronte a riflessioni sulla sua terminalità.

Vivere la terminalità della vita non riguarda solo chi è malato, ma anche chi è vecchio. I vecchi aumentano diventando via via disabili, ingombranti, invisibili. Quando sono malati si attende la loro morte, quando non lo sono diventano socialmente un peso e una limitazione insopportabile. Stranamente sul piano sociale si risolve il problema della vecchiaia con case di riposo o con badanti, anche a costo di spese non indifferenti, pur di non occuparcene direttamente. Nel primo caso ci rimane la «seccatura» di doverli andare a trovare, nel secondo costituiscono una limitazione di tempo e attività personali. Eppure ciascuno di noi aspira a vivere a lungo quindi a divenire vecchio, e nel vecchio malato che dobbiamo accudire dovremmo vedere noi stessi.

La terapia della dignità è stata sviluppata come un modo per tentare di diminuire la sofferenza, per migliorare la qualità della loro vita residua; per consentire loro di sistemare le questioni pratiche in sospeso, di dire le cose che sentono il bisogno di dire alle persone a cui sentono di dirle e di rafforzare la loro percezione di dignità.

Come in molte famiglie mi trovo a condividere con parenti e amici la sofferenza per una persona cara che ha un cancro, malattia simbolo della contemporaneità. Le altre grandi malattie del nostro tempo come l’Alzheimer, il Parkinson e le sclerosi agiscono sulla psiche collettiva in altro modo, determinando esiti che solo all’inizio possono essere gestiti in ambito familiare, mentre il peso psicologico del cancro di una persona cara viene distribuito sempre più spesso in un lasso temporale più lungo, alternando fasi attive a degenze brevi, illudendo di averlo sconfitto e procrastinando per lungo tempo l’indeterminatezza del proprio destino. Di cancro, così dicono le statistiche, si muore meno, ma la prevenzione prima e la terapia poi, condizionano fortemente il nostro vivere. Vivereàcon la paura di scoprire che hai un cancro, o vivere con la paura che subentri una recidiva, condiziona fortemente il nostro senso dell’esistenza non solo sul guado tra vita e morte, ma anche con la penosa frequenza e conseguente ansia di essere inseriti in un percorso sanitario spesso alieno dove manca o è carente la terapia della dignità.

Condivido per puro spirito esistenzialista o retorico (chissà quale tra i due prevale?) l’idea che le malattie a minaccia per la vita possono diventare un’opportunità per la crescita personale. Confrontandosi con la prospettiva della morte, i presupposti individuali relativi ai valori e al significato dell’esistenza, sino al quel punto perseguiti, vanno in frantumi. È su questo che si offre un’opportunità, un momento di intuizione e conoscenza (insight), per ciascuno di noi per rivalutare le attività della propria vita e scegliere quelle di maggiore profondità sul piano del significato e dei valori, nonché della speranza per i giorni che restano.

Talora la morte non rispetta gli impegni e si ha l’avventura di continuare a vivere e ancora compiere opere considerevoli anche se si vive nel timore che il tarlo delle metastasi si risvegli. Di fatto però, anche se fisicamente si sta apparentemente bene, già un tarlo psicologico opera nella nostra mente modificando la struttura originaria e offrendoci una persona che ancora non conoscevamo, un altro «noi», quasi fossimo di fatto diventati un ogm di noi stessi. Molti dicono che non ci vogliono pensare, altri che vogliono vivere per quello che non avevano mai fatto, altri vivono l’attesa rinchiudendosi e abbandonando il mondo. Tuttavia, potremmo dire che in cuor suo nessuno abbandona la speranza, ma solo se è accompagnata da un forte senso di dignità e di forza interiore che bisogna educarsi ad avere (Chochinov H. M., Terapia della dignità. Parole per il tempo che rimane, 2015, Il Pensiero Scientifico).

Tra le pratiche centrate sulla dignità, si devono anche elencare il vivere nel momento, il mantenimento di una «normalità», la ricerca di conforto spirituale perché vivere significa essere vulnerabili. Ciascuno di noi dovrebbe dunque mettere maggiore attenzione alle basi della terapia della dignità per sé stesso e per gli altri. Attraverso questo processo, più spirituale che operativo, si può dare un significato al presente e un valore al futuro nostro e a quello degli altri, perché prendendosi cura di una persona nelle fasi più fragili e vulnerabili della sua esistenza si afferma tutto il suo e il nostro valore intrinseco. Sembra un gesto altruistico, ma di fatto è l’assolvimento delle immagini fantasmiche che ci proiettano nella nostra vecchiaia, nella nostra malattia, così come i genitori vecchi e malati insegnano ai figli come si muore.