Egitto, il potere rimane ai militari
Esclusi i rivoluzionari della piazza, divisi fra loro
Al termine di una lunga fase di transizione, il 30 giugno 2012 la giunta militare egiziana ha formalmente passato i poteri al neoeletto presidente Mohammed Morsy, esponente dei Fratelli Musulmani e primo civile a occupare la carica di capo dello Stato. La sua vittoria è stata il risultato di un voto dettato dalla paura. Il ballottaggio delle presidenziali ha posto gli egiziani di fronte alla scelta tra Ahmed Shafiq, militare ed ex fedele primo ministro di Mubarak, e il già citato Morsy, rappresentante dell’ala più intransigente della Fratellanza Musulmana. Gli elettori, impauriti da una possibile islamizzazione dello Stato, più che dalla restaurazione del vecchio regime, hanno scelto Shafiq. Tra questi si contano molti copti, ma anche diversi secolari (ossia non islamisti). Gli egiziani che invece temevano di più il ritorno del regime di Mubarak, e la vendetta nei confronti dei rivoluzionari, hanno scelto Morsy, seppur con grandi riserve. Tra questi si contano i salafiti, gli islamisti moderati e molti movimenti politici, anche secolari, nati in seno alla rivoluzione. Un piccolo ma significativo gruppo di egiziani ha invece scelto il boicottaggio, puntando sulla costruzione di una «terza via» ancora da strutturare.
Ma come si è potuti giungere all’esclusione dal potere delle forze che avevano dato vita alla rivoluzione? Innanzitutto ha pesato la divisione dei candidati che più la rappresentavano, principalmente il nasseriano Hamdeen Sabbahi e l’islamista progressista Abdel Moneim Abul Fotouh, i quali non sono riusciti a raggiungere un accordo per presentarsi uniti alle elezioni. La somma dei loro voti sarebbe stata largamente sufficiente a battere sia Morsy sia Shafiq. La grande varietà dell’Egitto di piazza Tahrir, che di per sé è una ricchezza, si è rivelata un ostacolo al momento di serrare le fila di fronte alle collaudate macchine politiche dell’ex regime e della Fratellanza Musulmana.
Dietro all’esclusione dal potere delle forze rivoluzionarie c’è, però, anche la strategia dei militari, che sono ancora i veri «padroni» dell’Egitto. I generali hanno gestito la transizione con lo scopo di preservare i propri privilegi politici ed economici (circa il 40% dell’economia del Paese è in mano loro). Hanno rimosso la testa del regime, cioè Hosni Mubarak, ma hanno lasciato intatto il corpo, ossia lo stato di polizia e le istituzioni corrotte. Hanno sistematicamente alimentato nel paese il senso d’insicurezza nel paese, lasciando crescere il crimine e fomentando la xenofobia. Hanno diviso la piazza che si era ribellata contro Mubarak, prendendo a interlocutori privilegiati i Fratelli Musulmani, sia perché rappresentavano la forza di opposizione più organizzata (e dunque più pericolosa) sia perché gli islamisti erano i più facili al compromesso. Hanno imposto un programma di riforme inadeguato finàdall’inizio, facendo precedere le elezioni parlamentari alla riscrittura della Costituzione, cosa che ha portato, da un lato, al dominio islamista del Parlamento e ha provocato, dall’altro, una grave crisi istituzionale: a tutt’oggi, in assenza di Costituzione, i poteri del Parlamento e del presidente restano indefiniti, dipendenti di volta in volta dalle decisioni dei militari. Infine, coadiuvati dagli islamisti, i generali hanno sistematicamente represso e diffamato gli attivisti laici, quegli stessi che erano stati la miccia della rivoluzione. Il risultato è stato il progressivo erodersi del supporto popolare a proteste e manifestazioni, e il crescere del risentimento nei confronti dei giovani attivisti, ai quali si è addossata la responsabilità dell’instabilità del Paese e della disastrosa situazione economica.
I Fratelli Musulmani, dal canto loro, hanno presto abbandonato la piazza laica per perseguire i propri interessi. Hanno sostenuto la tabella di marcia dei militari, ben sapendo che ciò avrebbe dato loro grossi vantaggi alle elezioni. Hanno insistito sull’approvazione di una legge elettorale, palesemente incostituzionale, che consentisse loro di guadagnare più seggi in Parlamento, il quale, in seguito, è stato ovviamente sciolto dalla Corte Costituzionale, fornendo la scusa ai generali per riprendersi il potere legislativo. Hanno sostenuto i militari quando il Paese li accusava di gravi violenze sui manifestanti, contribuendo a diffamare questi ultimi. Hanno monopolizzato la Costituente senza riguardi per pluralismo e democraticità, costringendo il tribunale amministrativo a scioglierla. Nel gioco tra militari e islamisti, le forze della rivoluzione sono rimaste schiacciate.
Morsy, ora, è in posizione difficile, pizzicato tra i militari (che poco prima della sua elezione si sono premurati di decurtare i poteri del Presidente, mantenendo per sé quelli fondamentali) e la pressione popolare. Nonostante i militari, che gli metteranno sicuramente i bastoni tra le ruote se lui minaccerà realmente il loro potere, Morsy dovrà rispondere alle aspirazioni di un elettorato che va ben oltre i fedelissimi della Fratellanza. Dovrà soprattutto dare risposte concrete e immediate alle necessità urgenti di una popolazione che, in larga maggioranza, non ha abbastanza di che vivere. Morsy, pertanto, rischia di fallire, soprattutto su questioni quali la giustizia sociale e il lavoro. La piazza inoltre – e questo è il lato positivo della situazione – è ancora reattiva, pronta a scatenarsi contro chiunque tenti di ristabilire un governo autoritario, non rispondendo alla sua domanda di giustizia e democrazia.
Elisa Ferrero
traduttrice dall’arabo di testi letterari e saggistica
blogger e profonda conoscitrice del mondo arabo