Eccessi in bilancia, dell’inumano
Corpi pesanti, corpi leggeri
«Siamo gli esseri più dissociati,
i più sproporzionati in sé stessi,
i più inumani che siano mai esistiti».
Günter Anders, L’uomo è antiquato
Mondo che mangia, mondo che ha fame
Ogni anno si celebra nel mese di ottobre, a meno di una settimana di distanza l’una dall’altra, il giorno 10 la giornata dell’obesità, e a seguire quella dell’alimentazione, che è dedicata alla fame nel mondo (il giorno 16). Fa un certo effetto che le due giornate si trovino così vicine: da un lato la nuova malattia dei paesi industrializzati, l’emergenza collettiva di corpi che s’ingrossano a ogni età; dall’altro lato la piaga biblica di popoli interi che continuano a morire di fame. Da una parte l’abbondanza vergognosa di qualsiasi genere di cibo, dall’altra parte l’impossibilità di avere un pugno di riso per non morire oggi. La giornata dell’obesità smaschera la falsità del paradiso in terra, della società dell’abbondanza, che sprofonda sotto il proprio peso da cattiva alimentazione.
La giornata della fame denuncia invece gli sprechi, i rifiuti, le ingiustizie dell’abbondanza: i prodotti agricoli al macero per tenere a regime i prezzi di mercato, i fiumi di latte in eccesso come fertilizzanti nei campi, l’oceano semisolido e puzzolente dei rifiuti su cui galleggiano le città. Con entrambe le giornate si proiettano sul megaschermo mondiale immense montagne di rifiuti che non si sa più dove mettere. Nelle città obese sono gli scarti del consumo e dello spreco; nel mondo affamato sono le cataste di corpi macilenti e scheletrici, rifiuti essi stessi.
Nella stessa casa
Chi mangia e chi ha fame non abita luoghi diversi. Si vive tutti nella stessa metropoli globale. Le multinazionali del cibo per le città-supermercato dell’Occidente presidiano gli stessi paesi che hanno fame. Per converso, le città obese recitano uno spettacolo deprimente: sepolte dal cibo a basso costo, ogni tanto si pentono e, pur continuando a mangiare troppo e male, sfoggiano il pensiero lussuoso di tornare magre, di avere corpi in forma e snelli. Senza troppa convinzione.
A far pentire un poco sono più che altro convenienze e minacce, come il costo sociale dell’obesità o i premi e le punizioni che qualche buontempone di sindaco (mille euro al mese), o di preside (togliere punti alla media scolastica), promette, da una parte all’altra dell’Atlantico, per chi riesce, o meno, a dimagrire di qualche chilo. Oppure è la preoccupazione di adeguarsi un po’ di più al modello mediatico dominante, e variabile, del corpo in forma: al mito di turno.
Chi ha fame sogna il cibo che non ha (o che non ha più), guardando come un miraggio agli ipercentri del benessere a basso costo di qualche periferia metropolitana; chi ha troppo cibo riscopre la fame, ma non guarda in faccia chi è affamato sul serio, allo scippo del pane quotidiano, all’ingiustizia dell’eccesso. Guarda piuttosto, sempre ripiegato su di sé, ai modelli anoressici della moda; o ai motivi, talora un po’ snob, dei consumi finalmente intelligenti e responsabili, purché restino consumi.
Big society. Fabbricare corpi
Nella crisi globale, fame e obesità sono gemelle. Per l’obesità non è solo questione di emergenza medica, su cui si ragiona finalmente a voce alta anche a livello istituzionale: per il disagio delle singole persone, per le ampie fasce di popolazione coinvolte, per le ricadute sulla collettività in termini di costi sanitari ed economici. La coppia obesità/ anoressia è piuttosto un deposito simbolico del modo comune di vivere il corpo.
Ogni corpo è sottoposto di continuo alla doppia, lacerante, pressione al consumo e al salutismo. I gesti più normali e quotidiani come il bere e il mangiare, la possibilità stessa di vivere, sono spezzati e resi incerti. Sarà anche vero che a livello mondiale aumentano le preoccupazioni, la consapevolezza; che siano più frequenti le prediche dei telegiornali sulla necessità di lettura delle etichette alimentari. A fronte dell’industria sociale che fabbrica la ruota perpetua dei corpi grassi e magri – grassi perché dimagriscano, magri perché ingrassino -, cresce l’impressione che, al solito, si scarichi il problema sulla responsabilità individuale quando invece, sottoposta com’è alla pressione snervante tra mangiare e non mangiare, nessuna singola volontà governa più sé stessa. Puntuale come una bomba a orologeria, nella lotta incessante tra corpi snelli e corpi pesanti, si sfrutta casomai in modo ipocrita un conflitto morale che, nonostante le apparenze contrarie, non è, e non si vuole, risolto – tanto fa comodo il suo rimbalzo continuo.
Il doppio e parallelo messaggio a ingrassare e a dimagrire, all’obesità e all’anoressia, nelle parole e nei fatti ricalca la guerra tra le morali del piacere e quelle del rigore, tra le etiche della concessione e quelle dell’astinenza. Ma diventate improvvisamente alleate.
Corpi divisi, corpi imprigionati
Un corpo diviso è un uomo spezzato. Da una parte il corpo del lavoro e del dovere, che fatica e produce, dato agli altri, alla società, come soldatini ubbidienti per la causa comune; dall’altra parte il corpo dei sentimenti e del piacere, che s’illude di rinascere ogni volta libero come soggetto di sensazioni. Stranissima situazione. Non crediamo più che il corpo sia la prigione dello spirito, non crediamo neppure che i corpi siano tenuti in una galera sociale. Non sono più i tempi della nascita della prigione (M. Foucault), e nemmeno quelli dei lager, dei gulag, dei totalitarismi. Viviamo come Pinocchio, credendo di trovarci in una specie di Paese dei Balocchi, dove si consuma eros con la stessa indifferenza con cui si mangia, dove si lavora divertendosi, tanto ce n’è in abbondanza, come per la libertà. Non è vero.
Il corpo non è più il nemico dello spirito. Non dovrebbe, eppure continua a farci paura; e non perché nasconda dentro di sé il peccato e l’immoralità. Il corpo ci fa oggi paura perché non è ancora abbastanza corpo, e cioè giovane, in forma, bello – abbastanza lucente nel suo essere e rimanere pur sempre corpo, carne e sangue, fragilità. Le nostre carceri sono talmente sottili che non si distinguono più dal nostro stesso corpo e dai nostri stessi pensieri. Sono prigioni dolci, fatte di cibo a disposizione, di sesso, di salute, di libertà per tutti.
Questa generazione è la più dissociata, schizzata e schizofrenica che si possa immaginare – la più inumana (così suona l’accusa di Günter Anders). Siamo inumani, non disumani: umanamente incapaci di essere umani, di lottare per l’esistenza, di renderci conto del contrasto, di protestare. Si accetta l’assurdo così, con un sorrisetto un po’ ebete sulle labbra.
Convinti di essere liberi, noi vogliamo abitare nelle nostre prigioni.
Corpi terreni, corpi virtuali
Le nostre prigioni sono diventate le galere dei corpi grassi, che vogliono dimagrire, o dei corpi troppo magri, che vorrebbero gonfiarsi sul petto o sui glutei con qualche iniezione. Galere anche dei corpi normali, pur sempre troppo pesanti, troppo lenti, troppo vulnerabili, che invidiano l’agilità e la velocità dell’interfaccia di un computer. Con la dimensione virtuale si torna a vedere il corpo come prigione dell’anima, idea che sembrava superata. Solo che la liberazione virtuale dal corpo terrestre non ci rende più spirituali: ci consegna di nuovo a un altro corpo, per quanto smagrito e assottigliato, alleggerito, in sottilissimi puntini elettronici.
Anziché protestare in favore del corpo, della libertà, della giustizia, anziché lottare perché i corpi, gli uomini, non siano dapprima frantumati, manipolati, controllati, violati, e poi dismessi e rottamati come rifiuti, si accetta di presentarsi docili (e colpevoli) sul banco degli imputati per il semplice fatto di essere corpo.
Proprio non si capisce perché l’«uomo vero» si lasci convincere per l’ennesima volta di essere un «peso morto», un «residuo», e s’impegni, «con la forza della vigliaccheria, a somigliare al proprio ritratto» (Alberto Savinio, Nuova enciclopedia) soltanto immaginato.
Franco Riva docente università Cattolica del Sacro Cuore
facoltà di lettere e filosofia,
componente la redazione di Madrugada