E se fosse una “zinghera”
L’insegnamento di don Milani, in una scuola di provincia. Nella periferia, un tempo operaia, della provincia.
In questa periferia abita la piccola, ma significativa comunità sinta della città. Con gli anni ho imparato che non ci sono molte certezze con i nomadi.
6,30 della mattina del primo giorno di scuola, squilla il telefono.
- Marcello, a che ora esce di scuola oggi Kevin?
- Escono tutti all’una e un quarto, dopo la mensa.
- Anche Kevin?
- Certo, anche lui… tutti. Ci vediamo dopo?
- Sì, dai. Ciao.
Poi Kevin a scuola non si vede, ma non c’è niente di strano.
Nel territorio del mio istituto insiste, è proprio il caso di dire, un campo di transito per i «nomadi». Transito? In realtà sono lì da più di vent’anni, io scherzo che sono più nomade di loro, con tutti i traslochi che ho fatto! Dunque i bambini di etnia sinti in età scolare competono alla mia scuola, che storicamente ha attivato un Progetto Nomadi, ossia un docente distaccato dall’insegnamento per occuparsi delle problematiche specifiche del gruppo e favorire l’integrazione scolastica.
Un tempo, fino ad alcuni anni fa, era proprio così: un insegnante a orario pieno sul progetto in questione. Entrava nelle classi, seguiva parte della programmazione, interveniva nello studio a casa, concordava percorsi di apprendimento…
Poi, i famigerati tagli e le esigenze più diverse (insegnanti di inglese, di sostegno, carenze in organico e così via) sono state messe assieme e la figura specifica è sparita.
La mia scuola però non ha abbandonato il progetto e ha fatto in modo che rimanessero sempre almeno alcune ore da dedicare ai nomadi, in ogni caso.
Il maestro dei sinti
La persona che da più di dieci anni svolge questo ruolo, è il sottoscritto. È un lavoro piuttosto delicato, perché mi trovo a «litigare» con tutti: litigo con le famiglie dei bambini sinti che non li mandano a scuola, che non vedono nessuna utilità nella frequenza; litigo con alcuni insegnanti che non accettano questa diversità così radicale e vorrebbero, magari sostenendo un ambiguo senso di giustizia, «trattarli come tutti gli altri» (chi era quel tale che diceva che «fare parti uguali fra ineguali è somma ingiustizia»?).
Col tempo ho conosciuto un mondo molto ricco e particolare. Senza possedere in partenza specifiche competenze, ho avuto l’occasione di venire a contatto con una comunità poco conosciuta. Fra le diverse cose che ho imparato, una su tutte continua a convincermi della bontà del progetto, il suo nocciolo duro.
La scuola per molti di questi bambini è spesso l’unica o quantomeno la più significativa occasione di condivisione autentica con il mondo dei gagè (termine con cui in lingua romanes vengono definiti i non appartenenti al loro popolo, un po’ come i goym per gli ebrei).
I rapporti con il mondo che li circonda sono condizionati, innanzitutto, da due sentimenti. Il primo è la paura, il senso di inadeguatezza nei confronti di un mondo che non riescono a comprendere e che fondamentalmente sentono ostile. Dagli torto…
D’altra parte, è questo mondo che spesso permette loro di sopravvivere, è rivolgendosi ai gagi che i sinti – come i Rom, i Koracanè, i Lovari e tutte le altre realtà di questa complessa costellazione – riescono a ottenere di che sostentarsi: la raccolta di metalli, l’assistenza dei servizi sociali, la beneficenza…
In ogni caso il rapporto difficilmente ha i connotati di una situazione «fra pari».
Una scuola variopinta
A scuola, sì. A scuola, soprattutto alla primaria in cui nei bambini non si sono ancora strutturati i pregiudizi che possono condizionare una relazione, questi rapporti sono ancora veri.
In una scuola «variopinta» come la mia, in cui oltre a due alunni sinti, nella stessa classe si trovano pakistani, camerunensi, nigeriani, marocchini, tunisini, rumeni, algerini… è molto difficile stigmatizzare una qualche diversità: tutti sono diversi, ergo, non c’è vera diversità!
(A dire il vero ogni tanto si innesca un corto circuito, ma in modo buffo: «Eh, se ci fosse una vera zinghera qui, non rideresti mica!», dice una mia alunna a una compagna, senza nemmeno immaginare che quella che pochi minuti prima aveva eletto come migliore amica era proprio una zinghera!).
La difficoltà come scuola di relazionarsi – come non mi piace questa parola – in modo efficace, viene ampiamente ripagata ogni qual volta li vedo giocare assieme, sinti e gagi. È giusto, è indispensabile che almeno la scuola faccia di tutto per favorire una frequenza che è prima di tutto frequentazione fra sinti e gagi.
Non so quanto questo influenzerà la loro vita futura. Viviamo in un periodo in cui il razzismo, prima grande negazione della dignità dell’uomo, sta vivendo un momento di grande popolarità: sembra di sentire riecheggiare il sinistro: «È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti».
Probabilmente, col passare degli anni, questi bambini attraverseranno tutti gli eventi significativi della loro vita nella ristretta cerchia della loro comunità, nel «campo di transito», ma sono certo che se dovranno costruire un rapporto di fiducia con il «nostro» mondo, potranno attingere almeno al ricordo di un’esperienza autentica: quella sui banchi di scuola. E noi sappiamo bene che questa è l’unica possibilità per sottrarsi a un meccanismo di rifiuto sempre uguale a sé stesso.
La dignità passa anche da qui. Dal potersi riconoscere reciprocamente come persone.
Francis non vuole andare a scuola
Francis è iscritto in prima elementare, non ha mai frequentato la scuola d’infanzia. Probabilmente non si è mai allontanato dalla mamma per più di 20 minuti.
I bimbi sinti sono molto attaccati alla madre, vengono allattati al seno per tantissimo tempo e, come la Madonna, non toccano terra prima dei tre anni. Sempre in braccio. È dura staccarsi ed entrare nel pericoloso e misterioso mondo dei gagè.
Io che conosco e frequento da anni la loro comunità, ho un buon rapporto con le famiglie del campo. Mi sono guadagnato un po’ di fiducia e provo a fargli superare questo rifiuto categorico portandomelo in classe, d’accordo con i genitori.
Così il papà, cercando di convincere Francis, gli dice: «Vai con Marcello, lui è un sinto! È il fratello di Oreste» – Oreste è l’anziano del campo, la cosa anagraficamente non mi lusinga – «Ma non dire in giro che lui è un sinto, se no i gagi lo licenziano!».
Vale più di un trattato di antropologia!
Marcello Brondi
insegnante nella scuola primaria