Due vite e un approccio “a mani nude”
Un approccio a mani nude
Dal 1983 al 1992 come francescano e poi dal 1992 al 2008 dopo il matrimonio con Colette, Michel ha condiviso la vita quotidiana delle persone senza fissa dimora sia in Francia che in Belgio.
Il nostro approccio alla sequela del vangelo e ispirandoci alla spiritualità francescana si è sempre dissociato da qualsiasi forma di militanza, da qualsiasi tentativo di proselitismo e, allo stesso tempo, da ogni orientamento sociale ed educativo. Non che questi ultimi obiettivi siano da rinnegare, ma questa non era la nostra intenzione.
Il nostro desiderio è stato quello di avvicinarci molto semplicemente a queste persone, sposando concretamente le loro condizioni di vita, di giorno e di notte, frequentando assieme a loro, sia in Francia che in Belgio, i centri di accoglienza, le stazioni ferroviarie, gli edifici abbandonati e occupati abusivamente, i parcheggi, le piazze e così via, risiedendo per più mesi in una stessa città e non esitando anche a tornarci con regolarità.
Un approccio, a mani nude, che mirava anche a lasciare all’altro, alla persona svuotata, ai senzacasa e agli esclusi, l’iniziativa di accoglierci (o anche no) nell’intimità della loro esistenza. Approccio che volevamo profondamente fraterno, così da consentirci di diventare, nel corso dei giorni, loro vicini e amici in una reale reciprocità.
Se noi abbiamo potuto vivere così a lungo la stessa vita dei più poveri della nostra società, lo si deve al fatto di essere stati da loro accolti a braccia aperte.
Quale grazia è stata di avere ricevuto l’amicizia dei piccoli, di avere avuto accesso alle loro vite ferite, di averne scoperto l’intreccio di luci e ombre, di morte e vita ed essere stati da loro condotti ad amare sempre e di più, attraverso e oltre ogni forma di abbrutimento. E di avere imparato, nello stesso momento, ad «addomesticare» le nostre vite, come ci insegna così bene Jean Vanier, fondatore dell’«Arche», che è un luogo di convivenza tra persone disabili e persone sane.
Tra il denaro, l’essere e l’essere con
La nostra riflessione in ordine al tema del denaroàe della gratuità si fonda quindi con evidenza su questa esperienza, allargata, a sua volta, ad altri impegni, anteriori e/o posteriori, nel Quarto Mondo, da quello del carcere, a quello delle dipendenze, al mondo delle persone che, colpite da malattie irreversibili, si incamminano verso la morte.
Da secoli, specificatamente dall’avvento, nel Medioevo, della borghesia e della società mercantile, i rapporti nelle nostre società sono essenzialmente regolati dal denaro.
«Ogni lavoro, ogni fatica – ci ricorda un detto popolare – ha diritto al suo salario».
Questo denaro, guadagnato con il sudore della fronte (soprattutto ieri) o con l’affaticamento dei nostri occhi davanti al monitor di un computer (oggi), ma il più delle volte ancora legato al disinteresse che riveste un lavoro ripetitivo (alla catena di montaggio) o a volte anche assoggettato a una scarsa valorizzazione e/o riconoscimento, questo denaro, dunque, offre i mezzi per vivere o, meglio, per vivere più o meno agiatamente, a seconda che si riceva un salario minimo oppure, come nel caso dei grandi manager, si ricevano compensi fino a quattrocento volte maggiori.
Il denaro o la fortuna di cui dispongono alcuni, denaro che costituisce quindi il patrimonio e la ricchezza, è talvolta anche il frutto, in parte ingiusto, dell’accumulo di precedenti eredità.
Al fine di rompere questa catena generazionale, che non fa altro che accumulare e approfondire le differenze e le originali disuguaglianze tra i poveri e i ricchi delle nostre società, forse si dovrebbe osare davvero di lasciarci interpellare dalla proposta-ingiunzione biblica dell’anno giubilare, che consisteva, ogni cinquant’anni, nel riportare allo stato precedente ogni possesso e ogni avere. Anche se si tratta di una vera e propria utopia, perché vietarsi di riflettere in questa direzione?
Rare, ancora troppo rare, sono le persone che osano mettere in pratica il «Non ho niente da darti, nient’altro che me stesso» e che compiono la scelta di offrire tempo e «presenza pura» (C. Bobin) al posto di segni più visibili, che invece rendono sempre un po’ debitori i destinatari del dono.
In questo caso il denaro rischia a volte di dispensarci dall’essere e dall’essere con.
Il complesso rapporto dei poveri con il denaro
Nel mondo dei poveri e specificatamente nella relazione con essi, il denaro è una dimensione molto complessa.
In Francia e in Belgio, molti di loro dispongono di un reddito al di sotto dei minimi sociali garantiti. Per far fronte alle spese dei bisogni essenziali e permettersi, per esempio, «il lusso» di comperarsi un paio di scarpe da tennis nuove o un panino o ancora di concedersi una notte confortevole in una pensione, dopo giorni di sonno disagiato, molti senza fissa dimora sono costretti a mendicare, prendendosi senza tregua il rischio dello sguardo indifferente, sprezzante e in, ogni caso, raramente gratificante (accompagnato cioè da un sorriso o una parola).
E non è raro che volontari o benefattori si stupiscano e perfino si mostrino indignati e scandalizzati di fronte ad alcuni comportamenti dei più poveri, che giudicano senza neanche tentare di capire ciò che, in prima battuta, sembra aberrante, semplicemente perché a loro incomprensibile. Così capita che se qualcuno insiste per avere un vestito molto desiderato, dopo che il volontario gli ha già offerto diverse possibilità, venga facilmente tacciato di «fare insopportabilmente il difficile» o addirittura di essere un «incorreggibile approfittatore». Chi ancora, in un giorno di grandissima esasperazione, abbia l’ardire di gettar via l’ennesimo panino ricevuto, senza che gli sia chiesto mai se avrebbe preferito piuttosto qualcos’altro, si vedrà dipinto magari come un «cattivo povero» o addirittura come un «falso povero». E ciò semplicemente perché non dice «grazie tante» davanti all’obolo, al dono generosamente scelto per lui.
Non è facile, poi, anche attraverso il dono, sia esso in denaro o in natura, accedere a una forma di gratuità. Sovente sulla cosa che viene donata si è portati a far pesare che di essa ci si priva a favore dell’altro e, in tal modo, a restare così i soli protagonisti della situazione. L’invito del vangelo invece è di tutt’altro tenore: «Quello che dà la tua destra, non lo sappia la sinistra». In altre parole, quando tu hai aperto la tua mano per donare, non richiuderla per controllare ciò che il destinatario farà del tuo dono. Esso non ti appartiene più, appartiene a lui e lui solo può disporne.
Cercando di «possedere» ancora il tuo bene, cerchi inconsapevolmente di possedere la persona a cui l’hai donato.
Interiormente disarmati
Quest’ultimo punto ci riporta a esaminare più da vicino la particolarità della nostra opzione nell’incontro con i più poveri.
Avvicinandoci a loro senza denaro, «interiormente disarmati» (ciò che da un punto di vista idealeàè la stessa cosa), cerchiamo di instaurare un modello relazionale non soltanto privo di violenza, ma realmente improntato alla pace.
Alle persone spesso considerate negativamente o non considerate del tutto e che, per di più, hanno di sé stesse una pessima autostima, noi diamo l’occasione e la gioia di donare, di donarsi a noi, attraverso mille e una attenzioni alle cose semplici della vita quotidiana, che essi non smettono di prodigarci.
Nel corso del tempo questo approccio restituisce, in modo insensibile, una vera dignità alla persona deprivata, a colui che abitualmente non è tenuto in nessun conto.
Da povera qual è, a molti livelli, non soltanto a livello economico (ciò che non sarebbe il male più grave né forse il più difficile cui porre rimedio), ma soprattutto a quello relazionale e affettivo, la persona indigente viene, a sua volta, invitata a donare qualcosa attinto dal suo cuore, qualcosa di sé stessa. Ciò finisce per renderla «ricca», perché capace di ritrovare in sé stessa l’umanità, la grandezza e la bellezza.
«È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che fa la rosa così importante» ci sussurra all’orecchio senza tregua il Piccolo Principe di Saint-Exupéry.
Tempo gratuito, presenza gratuita, disponibilità gratuita… al di fuori di ogni ambito di quantificazione e di fatturazione.
Del resto, la vita di ciascuno di noi non aspira forse a questi spazi di gratuità, a questo soffio di gratuità?
Sulle nostre strade, se noi ci siamo profondamente aperti, la grazia dei più poveri, quali che essi siano, può essere quella di chiamarci a «entrare in gratuità», abbandonando, ad esempio, l’abituale «niente per niente». Infatti con essi e a favore di essi siamo positivamente invitati a praticare la «discriminante positiva». O ancora a inventare e sviluppare modi di vivere in cui ciascuno abbia pienamente il suo posto nella relazione e nello scambio.
In questo senso, noi non possiamo che incoraggiare vivamente tutte le forme di «scambio di servizi» che sorgono qua e là e che offrono a persone semplici l’opportunità di valorizzare talenti insospettati. E questo conduce a una conversione dei modi di guardare: dello sguardo degli altri su di esse e del loro sguardo su sé stesse.
La grazia dei poveri nelle nostre vite può essere quella di farci apprendere a non dominare ogni cosa, sia che ciò avvenga attraverso il denaro o attraverso la parola, ma di apprezzare l’atto del ricevere quanto l’atto del dare, di lasciare spazio all’altro, di mollare talvolta la presa sull’altro, di rovesciare i modi abituali di agire o di giudicare.
Nudità e assoluta gratuità
Condotti dai poveri ad affrontare le questioni di senso talvolta addirittura fino alle frontiere delleàquestioni ultime, noi ci troviamo richiamati alla nostra nudità fondamentale: «Nudo sei venuto sulla terra e nudo te ne andrai». Questo richiamo, che per noi talvolta è difficile e addirittura insopportabile, non è precisamente il luogo per eccellenza dell’assoluta gratuità annunciata dal vangelo? Infatti non saremo giudicati per i meriti né in proporzione alle nostre (pseudo) ricchezze e/o ai nostri talenti. La promessa che ci viene fatta è quella di essere accolti in modo totalmente incondizionato, unico e totale, indipendentemente da chi siamo, così come siamo, con le nostre ricchezze e le nostre povertà.
Dunque, intimamente rivestiti di questa strabiliante promessa, cerchiamo di irrigare di essa i nostri sentieri d’oggi e di domani.
Michel entra molto giovane nei francescani.
Nel 1983 decide di condividere la vita dei senzacasa nella sua interezza.
Nel 1992, dopo aver lasciato l’ordine francescano, prosegue il suo cammino con Colette,
diventata nel frattempo sua moglie.
Colette dopo aver esercitato per nove anni la professione di infermiera, fonda la comunità Magdala a favore dei senzacasa.
Nel 1992 conosce Michel e, dopo aver abbandonato tutto, si unisce a lui per condividere la vita dei più poveri.