Dopo e oltre Pomigliano
Il lavoro e i lavoratori
Abbiamo creato una nuova
classe di schiavi e l’abbiamo
chiamata emancipazione.
Serve un nuovo tipo di
impresa non capitalistica e
un nuovo tipo di credito che
sostenga le banche etiche e
mutui di credito solidale.
Il lavoro resta al centro della vita sociale e produttiva delle nazioni. Ce lo hanno ricordato di recente i lavoratori di Rosarno, di Termini Imerese, di Pomigliano, quel piccolo imprenditore veneto suicidatosi per il suo coraggio di non voler licenziare un altro lavoratore, insegnanti e ricercatori in difesa del posto di lavoro, l’odissea quotidiana di migranti e marginalizzati del mercato del lavoro che ormai ha molto di capitalistico (bieco sfruttamento) e poco di «mercato» (laddove una volta c’era il sindacato). Tutto questo al termine di un percorso di tre decenni, durante il quale, in modo pianificato, la grande industria e la grande finanza hanno attuato il loro piano di ristrutturazione economica tagliando le gambe alle organizzazioni sindacali e del movimento operaio e al potere di intervento dei governi e delle istituzioni politiche. Questo piano del capitale, la globalizzazione, con la fine dei contratti collettivi, il declino delle relazioni industriali, della solidarietà salariale dei redditi, la precarizzazione dei rapporti sociali, fu a suo tempo denunciato e reso pubblico ma ignorato da chi preferì parlare d’altro attaccandosi a manifesti e dichiarazioni di principio.
Una società liquida o una concentrazione di poteri forti?
La globalizzazione, il piano del capitale, è stata descritta, dipinta, come il regno dei «nodi» e dei «flussi», della «flessibilità» felice, della «rete», dell’«accesso», come la «società liquida», proprio quando questa si andava riorganizzando con una concentrazione inaudita di poteri forti internazionali in alleanza con piccole lobby nazionali. Una struttura di potere globale in mano a un pugno di transnazionali e di cortigiani ha ben poco di liquido. I sindacati comprarono il pacchetto delle «nuove tecnologie» con la promessa che questo avrebbe liberato i lavoratori dal lavoro pesante e rischioso, avrebbe incluso le lavoratrici delle zone remote del paese, le avrebbe emancipate dall’«idiozia» del lavoro domestico. Il risultato è noto. Abbiamo creato una nuova classe di schiavi, della quale siamo tutti complici, e l’abbiamo chiamata emancipazione. Reso inutile il lavoro dentro la grande fabbrica con il decentramento della produzione e la delocalizzazione, impoverito e screditato il mondo del lavoro frammentato e segmentato fuori della grande fabbrica, ormai solo cabina di comando della produzione fatta da altri, anche le restanti cittadelle sono in liquidazione. Il sindacato, arroccatosi al suo interno ma isolato all’esterno, è stato facilmente strangolato. Tutti sanno da anni che la globalizzazione ha abbandonato «la produzione di massa per il consumo di massa» e si concentra solo su mercati e consumatori ricchi. Se lo si fosse riconosciuto in tempo, si poteva capire che le scelte produttive del nostro paese non andavano in direzione dei nuovi paesi e mercati emergenti, ma verso i consumi e i mercati ricchi, in primo luogo dell’Occidente. Siamo invece rimasti fermi all’auto e alle armi, nella speranza che la finanza facesse il resto per noi.
La vana difesa della fabbrica d’auto e di armi
C’è un quadro mondiale evidente: la globalizzazione sta incontrando i propri ostacoli e sconfitte in Oriente e nel resto del mondo, cioè laddove la rinascita di quelle economie e la resistenza di quei popoli segna la sconfitta del nostro disegno di apartheid globale. Ha invece successo e sta vincendo in Occidente, e quindi anche da noi. Marchionne sa di avere vinto la sua piccola battaglia e lo sentono anche i lavoratori. D’altronde, le reazioni di simpatia e solidarietà verso i lavoratori, ripetizione di riti antichi e nuovi della sinistra ormai non più sinistra, lo mettono in evidenza con la loro totale assenza di proposte alternative a quelle di poter restare ancora per un po’ dentro la «gabbia d’oro» della fabbrica capitalistica (di auto o di armi che sia) al servizio del capitalismo finanziario e speculativo. La forza della Costituzione italiana risiedeva nel fatto che, quando fu scritta, rifletteva i rapporti di forza, sociali e politici, che ne dettarono i contenuti. Oggi, da trent’anni almeno, quel patto sociale, insieme a quello di tutti i paesi europei, è stato stracciato con le scelte economiche e politiche della borghesia europea. Ignorarlo parlando di errori imprenditoriali, sperando in un loro ravvedimento, è un’illusione.
La storia insegna: la risposta dei popoli alle crisi economiche
Ricominciare a pensare perché le esperienze passate, gloriose e sfortunate, vittorie e sconfitte, contano. Ne richiamo solo due, entrambe di lungo periodo: alla prima esperienza,àgloriosa, appartengono i modi con cui le comunità, i popoli, i lavoratori hanno reagito alle crisi economiche dei due secoli trascorsi uscendo dai tracciati dell’economia e della politica delle loro borghesie e monarchie e organizzando altre forme di economia, di mercati e di istituzioni (tutte le varie forme di impresa cooperativa, di mutue, di credito popolare e cooperativo, di servizi e di solidarietà, insieme all’abolizione dei latifondi e dei privilegi) e opponendosi violentemente alla «gabbia d’oro», produttiva e istituzionale, costruita dai rispettivi regimi. Quelle nuove iniziative, quelle imprese, quelle istituzioni, consentirono nel secondo dopoguerra la creazione di un’economia pubblica e sociale, l’istituzione di nuove forme di socialità e cooperazione tra i lavoratori, che trovarono la massima espressione nelle lotte contadine e degli operai per una diversa produzione e organizzazione sociale, per impedire lo svuotamento dei nostri villaggi e territori.
Un’esperienza fallimentare
Alla seconda esperienza, sfortunata, appartiene la fallimentare strategia dell’inseguimento del sistema capitalistico che si è preteso di cavalcare mediante leggi, regole e richiami etici. Un tentativo, questo, che risale alle leggi statunitensi antitrust (controllo dei monopoli) e che continua poi con il controllo della finanza, delle tecnologie, dei servizi segreti, delle carceri, dei mercati ecc. Un controllo dove controllati e controllori sono sempre gli stessi, se si escludono le poche parentesi rivoluzionarie e riformiste della storia. Esattamente come oggi, dove le grandi banche nazionalitransnazionali controllano se stesse mediante Mediobanca (in Italia), i prefetti della Goldman Sachs sono messi alla testa delle istituzioni di controllo nazionali e internazionali (Mario Draghi ad esempio). Un tentativo che continua a pretendere di imporre a grandi imprese e poteri capitalistici comportamenti contrari alla loro natura e agli scopi per i quali sono istituiti. La stessa logica di chi pensa di poter imporre o suggerire a Marchionne, rappresentante di una multinazionale dell’auto, comportamenti socialmente virtuosi. Marchionne non si è sbagliato, fa esattamente quello per cui è pagato (molto bene) e che forse crede anche giusto (la tragedia degli umani).
Rivedere i rapporti tra politica ed economia
Quindi, che fare? Anzitutto uscire dall’illusione che politica ed economia siano due poteri separati. Per la riforma della politica è necessario procedere in parallelo alla riforma dell’economia, mediante un nuovo tipo di impresa non capitalistica, l’impresa sociale, un nuovo tipo di credito che inizi a utilizzare meglio quel 30% di credito popolare e cooperativo esistente in Italia, che sostenga il fiorire già in atto di banche etiche e mutue di credito solidale (MAG) ed escludendo dal credito grosse banche nazionali e transnazionali (proposta di J. K. Galbraith negli Stati Uniti di questi giorni). Settori questi che possono avere il compito, se opportunamente stimolati e protetti, di rigenerare un mercato nazionale, regionale e locale di beni e servizi utili ai cittadini. Attività e settori ai quali il capitalismo non è più interessato e per questo oggi in declino e abbandonati alle importazioni. È necessario prevedere (come avvenne dopo la crisi degli anni trenta e nel secondo dopoguerra) che nei settori strategici da ridefinire oggi (auto, trasporti aerei e ferroviari, ricerca e tecnologia, istruzione, sanità, servizi base dei cittadini, acqua, ecc.) si realizzi di nuovo un intervento pubblico che non porti però alla statalizzazione di queste funzioni ma a un loro governo decentrato e partecipato. Le forme istituzionali di questo intervento esistono tutte nella Costituzione (art. 46). Le basi del federalismo sono queste e non una vuota affermazione di governo delle regioni e delle comunità.
Nel caso dell’auto, ad esempio, va definita l’importanza strategica di questo settore ma non in funzione dell’andamento dei mercati o della domanda dell’auto, ma del tipo di trasporto che noi vogliamo contribuire a sviluppare in Italia e nel mondo. L’impresa pubblica è esistita in Italia e con un forte ruolo trainante e una forte imprenditorialità. Ma il governo dell’impresa non può essere trasferito da Marchionne ad altri imprenditori pubblici senza essere affiancato da quelle forme di partecipazione e controllo sociale previste dalla nostra Costituzione. Quindi, la battaglia non è di convincere la FIAT o il mattatore di turno a continuare nel suo ruolo detestabile, con o senza i licenziamenti, con o senza la Panda o l’auto elettrica, con o senza l’accordo con i sindacati o il diritto di sciopero, ma a dargli il benservito espropriandola della sua gestione e imprenditorialità. I lavoratori, tutti, chiedono in fondo un lavoro di cui poter andare orgogliosi e un reddito sufficiente per le proprie famiglie. La risposta per entrambi non viene più dalla Fiat o consimili, ma solo ripristinando mezzi e strumenti pubblici che restituiscano ai lavoratori e ai cittadini tutti la possibilità di soddisfarli.
Bruno Amoroso
Docente emerito
Roskilde University, Danimarca