Diritti e libertà nell’età della rete
Il vecchio alla prova del nuovo
Se si vuole riflettere su quali siano gli odierni scenari per i nostri diritti e per le nostre libertà nell’età di Internet è indispensabile porre una premessa fondamentale: di fronte al web, l’estrema ricchezza degli approcci costituzionali maturati in seno alla tradizione giuridica occidentale rischia di essere sempre e inevitabilmente fuori gioco.
È una constatazione quasi disperante, ma è bene esserne pienamente coscienti. Le riflessioni giuridiche più avanzate del Novecento devono fare scopertamente i conti con la strutturale storicità e, per ciò solo, con l’obsolescenza (superamento) dei loro veicoli istituzionali.
È, questo, un dato pressoché naturale, affatto nuovo o sconosciuto; vale, cioè, per ogni aspetto della cultura e della conoscenza. Eppure risulta chiaro che, in questo terzo millennio, un tale dato è destinato a emergere meglio che in altre epoche. Infatti, la velocità delle conquiste tecnologiche e del modo con cui esse influenzano in maniera determinante la nostra vita quotidiana pongono tutte le costruzioni concettuali elaborate in un altro contesto nella condizione di chi si trovi sopra un rapidissimo tapis roulant senza avere la possibilità di tenere il ritmo richiesto. E così è anche per gli enormi e drammatici sforzi che hanno condotto le società (oggi) democratiche a elaborare quel complesso sistema (ed equilibrio) di principi, regole e poteri finalizzati a prestare garanzia a una molteplicità di interessi, individuali e collettivi.
Le grandi aperture che a ciascuno sono rese attingibili grazie alla possibilità di accesso a uno spazio ancora molto «franco» – e quindi «svincolato» dal paradigma territoriale e dagli immediati legami che su di esso possono di volta in volta costruirsi – mettono radicalmente in dubbio l’illusione, tipicamente moderna, di poter razionalizzare a-priori ogni forma di comportamento e di prevederne ogni possibile conseguenza, positiva o negativa. On line si abbattono tantissimi confini e, con essi, si indeboliscono tutte le qualificazioni giuridiche che sull’idea stessa di confine erano state elaborate. La stessa identità personale assume carattere mutevole, contribuendo, in questo modo, a rendere incerta la stessa imputabilità di determinate azioni e di determinati risultati. Viene gradualmente meno, in definitiva, o ne risulta comunque indebolita, l’effettività del controllo che ogni consolidato processo di disciplina normativa, anche costituzionale, ha sempre voluto instaurare circa il rapporto tra l’ordine giuridico, l’ordine politico e l’ordine economico-sociale.
Diritti e libertà nell’era digitale
La dialettica tra vecchie aspirazioni di garanzia e nuove dimensioni delle relazioni sociali «on the net» costituisce, per tutti i giuristi, croce e delizia di sfide interpretative del tutto inedite. In una cornice in cui l’ambizione di esaustività e di completezza della norma giuridica tende a recedere, a favore di una virtuale riaffermazione della generale e innominata libertà personale, tutto ri-diventa praticabile. Opportunità e pericoli sono facilmente avvertibili.
Se alcuni prodotti non sono accessibili nel mio Paese, lo possono essere in altri; e non devo più spostarmi o eludere le dogane; spesso mi basta un click, e l’oggetto del desiderio mi viene recapitato direttamente a domicilio. Può trattarsi di farmaci per me indispensabili; ma potrebbe anche trattarsi di merce pericolosa. Inoltre, indipendentemente dalla merce, una serie indefinita di altri soggetti potrebbe conoscere i miei dati e le mie preferenze d’acquisto. In tanti casi, potrei essere io stesso a rendere note tale informazioni a tutta l’enorme piazza virtuale del pianeta: ad esempio, utilizzando uno dei social network più diffusi, da Facebook a Twitter, da Linkedin ad Academia, etc. E se un potenziale datore di lavoro fosse scoraggiato ad assumermi perché è venuto a sapere qual è la consistenza della mia famiglia o quali sono le mie opinioni politiche o, ancora, quali sono le mie convinzioni religiose?
Certo, a ogni click corrisponde un contratto, regolato dal mio diritto o da quello di un altro Stato, e la mia libera volontà è astrattamente tutelata. Ma le cose non sono così lineari. Da un lato, stare nel club ha lati indubbiamente positivi e, sempre più spesso, è requisito necessario per interazioni assai proficue e poco rinunciabili. Dall’altro, i presupposti di queste operazioni e la mia stessa capacità – come quella del mio Stato – di entrare nella rete e di «vigilare» sono il frutto di elaborazioni tecniche che non provengono da alcuno Stato, che vengono prestabilite convenzionalmente da istituzioni ibride (un po’ pubbliche e un po’ private) esistenti sul piano globale, e che vengono semmai implementate da una comunità sempre variabile di utenti finali o di altri soggetti interessati. Può essere bella, allora, l’idea di una partita di calcio che, all’improvviso, comincia a giocarsi anche fuori dal rettangolo verde, secondo regole che i giocatori stessi si apprestano a sperimentare azione-per-azione; ma ai vantaggi di uno spettacolo ancor più entusiasmante può sommarsi l’eventualità di frequenti situazioni caotiche e di «falli» imprevisti e imprevedibili, con il pericolo che l’arbitro stesso si senta inetto e «getti la spugna». Ovvero, con il pericolo, non meno grave, che l’arbitro non sia nemmeno individuabile e che diritti e libertà siano destinati a essere assorbiti in un magma di riferimenti normativi (o quasi) particolarmente complessi e, di fatto, equivoci.
Vero è che gli Stati – e la stessa comunità internazionale – cercano di stare «al passo con i tempi» e di aggiornare il loro diritto. Ma la sensazione che si trovino tutti su di una passerella rotante particolarmente insidiosa è sempre dietro l’angolo. Occorre muoversi, sempre più velocemente, mentre i procedimenti normativi ritenuti finora più consoni e più compatibili con le grandi rivoluzioni della modernità sembrano, viceversa, lentissimi, e la necessità di immaginare strutture pubbliche tecnicamente più competenti e indipendenti dai meccanismi del dibattito democratico pare quasi inevitabile. Allo stesso modo, pare inevitabile pensare che queste strutture trovino una composizione a un livello superiore a quello statale, giacché è certo che, di fronte alla rete, il cono d’ombra del singolo Paese può funzionare come la lente difettosa di un apprendista scienziato, un po’ sbadato e claudicante.
Non è forse, vero, del resto, che, nell’attuale crisi economica, di fronte ai pericoli delle speculazioni finanziarie internazionali, le risposte degli Stati ci appaiono sempre in affanno? Se si medita sul fatto che tutte quelle speculazioni corrono sulla rete e si nutrono degli automatismi dei linguaggi che quella produce, allora si può comprendere quale possa essere la cronica insufficienza polmonare dei nostri sistemi di governo. Ma si può anche comprendere quale (e quanta) sia l’ansia e l’incertezza di società cheàelaborano determinate forme di potere e che, nello stesso momento, ne sperimentano la fragilità.
«La democrazia nel XXI secolo»
Questa locuzione – che è anche il titolo di una raccolta di saggi di uno dei primi e più autorevoli giuristi italiani che si sono occupati dei problemi qui sommariamente delineati (V. Frosini, Roma, 1997; n. ed. Macerata, 2010) – rappresenta l’oggetto di un interrogativo che non si può più ignorare. D’altra parte, se il territorio viene sempre più sostituito da un riferimento informatico e funzionale, è naturale chiedersi se anche i meccanismi della rappresentanza politica (per l’appunto, territoriale) non possano essere messi in dubbio e superati da forme di consultazione / legittimazione alternative e di istantanea attivazione degli interessati. Il dibattito sull’e-democracy e sui suoi possibili canali di realizzazione pratica non è materia di soli studiosi.
Anche un siffatto orizzonte non è completamente tranquillizzante: parafrasando una terminologia oggi in voga, si può ben evidenziare che la «liquidità» della rete porta con sé il rischio di una «liquefazione» degli accorgimenti che il costituzionalismo moderno ha voluto predisporre per l’espressione della volontà politica e per evitare strumentalizzazioni e manipolazioni.
Vi sono, però, dei profili interessanti. La rete accresce, almeno «in potenza», la disponibilità di informazioni e, con essa, la possibilità di una coscienza materialmente democratica e di una sostanziale maturazione globale degli individui sul significato complessivo della «lotta per i diritti». Come è stato recentemente osservato (v. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012), oggi sono anche – e in larga parte – le possibilità tecnologiche di Internet a consentire quei procedimenti di apprendimento che, per un verso, stimolano cittadini di molteplici Stati a rivendicare in ogni sede spazi maggiori di libertà, per altro verso, invitano un numero sempre più grande di persone, su scala mondiale, e ogni occasione, ad affermare «nuovi diritti» (sulla propria identità, sul proprio corpo, sulle proprie posizioni di utente nell’ambito del mercato dei servizi e degli scambi informatici, ecc.).
Non si può trascurare il fatto che anche questa prospettiva è sottilmente ambigua, poiché cela in sé stessa il germe di un’impostazione nella quale la «lotta per i diritti» deve rinnovarsi continuativamente, al di là del riconoscimento (storico) di un anteriore e preliminare (e insopprimibile) spazio di libertà, che non dovrebbe richiedere giustificazioni o affermazioni ulteriori. Tuttavia, in questo momento, è quanto meno utile – e maggiormente proficuo – convenire con l’opinione secondo cui il «bisogno» di diritti e di libertà che la rete «fertilizza» e mette in circolazione può rappresentare il più potente ed effettivo catalizzatore per un rinnovamento della politica e per l’argomentazione circostanziata, in tutte le situazioni possibili, dell’esistenza, per ogni forma di potere (pubblico o privato), di limiti invalicabili.