Dal «fare per» allo «stare con»

di Gaiera Giovanni

Una rivoluzione copernicana

La cascina contina

Da 15 anni vivo con mia moglie Emanuela e le nostre figlie Sara e Maria alla Cascina Contina, in quel di Rosate (Mi), tra le campagne del sudovest milanese: uno di quei luoghi che, forse per mancanza di termini più appropriati, continuano e continuiamo a chiamare Comunità. Una cascina dell’Ottocento circondata dalle risaie, dove dal 1994 cercano di vivere insieme persone con storie di tossicodipendenza e sedicenti tossico-indipendenti, persone con infezione da HIV e AIDS, adolescenti che hanno commesso reati o sono stati tolti alle famiglie con un decreto del Tribunale dei Minorenni, perché era meglio che non ci stessero un minuto di più. Donne, uomini, bambini piccoli, ragazze/i, adulti e anziani: una bella e varia umanità. Questo è il luogo da cui da un po’ di tempo osservo il mondo e costruisco perciò il mio punto di vista assolutamente particolare.

Alla Contina ci siamo arrivati casualmente, come peraltro succede (provate a pensarci) per le cose più importanti e belle della vita: c’è chi ha scritto fior fiore di libri su quanto «l’improbabile governa la nostra vita» (è il sottotitolo de «Il cigno nero» di Nassim Nicholas Taleb). Qualcuna/o e qualcosa ci aveva però sicuramente «rovinati prima»: l’educazione ricevuta nelle nostre famiglie, l’Oratorio e gli Scout a Castano Primo, nostro paese di origine, alle porte di Malpensa; qualche professore del liceo, che Emanuela e io abbiamo frequentato a Busto Arsizio, lei lo scientifico e io il classico: per quel che mi riguarda primo fra tutti chi ho avuto la fortuna di conoscere come insegnante di religione negli ultimi tre anni di liceo, quel don Isidoro Meschi, raffinatissimo teologo e grande corridore di mezzofondo e fondo nei Giochi della Gioventù di Istituto, che qualche anno dopo sarebbe stato ucciso con una coltellata da un ex-ospite della comunità per tossicodipendenti, la «Marco Riva», che aveva fondato poco fuori da Busto Arsizio. La sensazione di avere incrociato in lui la bellezza e la semplicità della santità.

Il vero modo di essere felici

Cresciuto negli scout cattolici da quando avevo 8 anni, ho ricevuto fin da piccolo la propostaàdel «servizio», uno dei capisaldi dell’educazione scout fin dalle pratiche e dai testi del suo fondatore Baden Powell (BP per gli scout di tutto il mondo). «Il vero modo di essere felici è fare la felicità degli altri», scriveva BP prima di morire nel suo famoso e stracitato ultimo messaggio ai Capi. Il servizio, dunque, come un «fare per»: nel solco della tradizione cristiana del «nessuno ha amore più grande di colui che dona la vita per coloro che ama». Anche per questo avevo deciso che da grande avrei fatto il dottore: per guarire (per salvare?). In realtà, già durante gli studi di Medicina scopri che da buona parte della malattie non si guarisce, perché sono croniche, e che quello che tu medico puoi fare, al massimo, è aiutare i pazienti a «starci dentro», a convivere con la loro sofferenza. E allora il tuo delirio di onnipotenza inizia – grazie a Dio! – a incrinarsi. Poi, se vuoi fare da grande l’infettivologo tropicalista per andare a lavorare nei paesi poveri e chiedi nel 1987 di fare lo studente interno agli Infettivi dell’Ospedale Sacco di Milano, il destino ti porta a incrociare l’AIDS: perché solo di pazienti con l’AIDS erano stracolmi allora i reparti di malattie infettive d’Italia, e in particolare a Milano, capitale dell’epidemia. E l’AIDS è stata lo schiaffo definitivo al delirio di onnipotenza degli infettivologi, che più di altri medici si vantavano di guarire, forti della potenza degli antibiotici di cui iniziavano ad avere piena la cartucciera. Non è un caso che il primo atto medico che ti trovi a fare, 2 giorni dopo la laurea nell’ottobre del ’90, è quello di assistere alla morte di Luca, un ospite del Centro Teresa Gabrieli, la Casa Alloggio per persone con HIV/AIDS gestita dalla Caritas ambrosiana, dove avevo iniziato a fine agosto a svolgere il servizio civile come obiettore di coscienza al servizio militare. Vedere un uomo morire, senza poter fare niente.

Vivere è convivere

E allora inizi a capire – in realtà il dubbio si era già da tempo insinuato – che probabilmente quello che ci viene chiesto non è tanto di «fare qualcosa per gli altri», ma di «stare con gli altri»: dal delirio di onnipotenza e di salvazione, che sa un po’ di colonialismo e imperialismo, alla cifra più umileàe più umana della reciprocità della condivisione. Stare, stare lì, stare con: resistendo alla voglia di scappare di fronte alla tua impotenza. «Se un giorno scriveranno la storia dell’impegno che la comunità internazionale ha messo per contrastare l’AIDS, di noi potranno almeno dire che non siamo scappati»: è una frase pronunciata da Jonathan Mann, il primo responsabile dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la lotta contro l’AIDS, ai tempi in cui le persone con HIV morivano come mosche, e che bene sintetizza la rivoluzione copernicana che la solidarietà deve affrontare. Se non vuole avere la stessa faccia dei «torroni a Natale» di altri tempi, solo un po’ ritoccata dal lifting dell’attualità. Allora la scelta di vivere in comune ti si rivela inevitabile, coerente e conseguente: «Chi prima, chi dopo, abbiamo sperimentato che solo vivendo integralmente con chi era in difficoltà potevamo essere solidali con gli emarginati, metterci in loro compagnia… Chi condivide è partecipe della vita altrui e partecipa all’altro la propria. Chi condivide si pone in termini di parità. Non fa il maestro, lo psicologo, il pedagogo, ma vive con l’altro…» («Sarete liberi davvero. Lettera sull’emarginazione», CNCA 1981). È forse la scoperta del rubinetto dell’acqua calda, perché tutti sappiamo che «vivere è convivere» (Ortega Y Gasset, il filosofo spagnolo maestro di Marì­a Zambrano): anche se oggi è sempre più un lusso e un privilegio, oltre che una sfida per sé e per le proprie «normali» relazioni. Ma anche sulla «normalità» ci sarebbe da aprire una seria riflessione. Sarà per un’altra volta?

Giovanni Gaiera
presidente Contina cooperativa sociale
comunità di accoglienza, Rosate (Mi)