Dai luoghi della memoria
All’inizio del conflitto bosniaco nacque a Bergamo il progetto Bergamo Pro Kakanj, con lo scopo iniziale di aiutare la popolazione di quella città non lontana da Sarajevo mediante l’invio di generi di prima necessità e poi con l’obiettivo di favorire il rientro dei profughi alle loro case.
Nell’autunno del 1996 ero responsabile della comunicazione della Cisl di Bergamo e con altri amici sindacalisti partimmo per Kakanj per conoscere e poi documentare l’esecuzione del progetto.
Subito dopo la frontiera di Trieste incontrammo i primi paesi colpiti dalla guerra: case distrutte, rovine annerite, villaggi abbandonati. I teschi disegnati su cartelli improvvisati indicavano pericolo di campi minati. Il viaggio durò diverse ore su strade dissestate o attendendo il nostro turno ai check point; arrivammo di notte, appena prima del coprifuoco, andammo a dormire nell’alloggio che ci era stato assegnato nella casa abbandonata di una famiglia musulmana.
Dopo Kakanj, Sarajevo; ci accolse una città quasi completamente distrutta, martoriata dal furore delle granate e dai colpi di mortaio. Ci mostrarono le «rose di Sarajevo», disegnate sulle strade dal catrame fuso dalle granate.
Ho ancora davanti agli occhi le rovine della sua biblioteca; la guerra non si era accontentata di uccidere, stuprare, violentare migliaia di civili, bambini compresi, bisognava abbattere e incenerire anche i simboli, la cultura e la memoria.
Proprio qui è nato il mio desiderio-bisogno di paternità, come atto di riscatto da tanto orrore: a nove mesi esatti dal mio ritorno da Sarajevo nasceva Martina.
Progetti di scambio e di solidarietà
Il «seme bosniaco» era ormai entrato nelle pieghe del quotidiano, da allora ogni occasione era buona per riprendere il filo della Bosnia, organizzare incontri, dibattiti, assemblee nelle aziende.
Si parlava della guerra ma anche e soprattutto di ricostruzione, si raccoglievano fondi e si progettavano viaggi di conoscenza e sensibilizzazione.
Alcuni anni dopo organizzammo con Cisl, Filca (il sindacato delle costruzioni Cisl) e Macondo campiscuola in Bosnia. Il primo campo nel 2005 a Zenica tracciava un percorso che ci avrebbe portato a Tuzla e poi a Srebrenica. In cinque anni circaà250 fra delegati, giovani e sindacalisti incontrarono altrettanti ragazzi bosniaci, s’intrecciarono relazioni, progetti, sogni comuni. Nacquero importanti progetti di scambio di cultura, capacità e abilità lavorative.
Si ricostruì una parte della scuola di Srebrenica con un progetto Filca nazionale denominato A scuola per l’integrazione.
Srebrenica, una piccola cittadina di un’enclave musulmana al confine con la Serbia, era stata teatro nel luglio del 1995 del primo genocidio in Europa dopo la seconda guerra mondiale: l’esercito serbo aveva ucciso circa 10.000 maschi musulmani fra i dodici e i settantasette anni.
Si realizzarono adozioni a distanza e progetti di sostegno a favore delle donne di Srebrenica.
Quella bosniaca è stata un’esperienza importante per tutti coloro che l’hanno vissuta, sia sui luoghi che l’hanno generata ma anche e soprattutto al ritorno, sui luoghi di lavoro, nelle scuole, nel sindacato.
Il tentativo era quello di informare e coinvolgere, parlare dell’ingiustizia e dell’orrore della guerra e soprattutto di Srebrenica, dove tutt’ora i familiari delle vittime vivono quotidianamente a stretto contatto con i carnefici, di denunciare l’atteggiamento dell’Europa che si rifiuta di «fare giustizia» impedendo di fatto un percorso di normalizzazione e di ricostruzione di contesti di vita civile.
Siamo ritornati più volte in Bosnia, abbiamo visto la ricostruzione concretizzarsi di anno in anno. Sarajevo è tornata a essere una città europea accogliente e affascinante, ma forse non sarà mai più l’esempio di integrazione fra culture e religioni che rappresentava prima del conflitto; forse Oriente e Occidente non potranno più mescolarsi fra le sue vie come accadeva un tempo.
Quello che colpisce è il percorso di omologazione al commercio e al denaro che coinvolge in modo omogeneo tutte le città europee.
Tornare alla normalità, come, quando
Questo processo, da un lato utile alla normalizzazione, non risparmia la popolazione che deve fare i conti con i costi di un’economia «all’occidentale», dove a farla da padrone sono le leggi di mercato e la mancanza quasi totale di norme a tutela del rapporto tra vita quotidiana e lavoro.
Anche a Srebrenica si vedono i primi segni di ricostruzione, il centro della cittadina è oggi restaurato, gli squarci delle granate quasi del tutto spariti, c’è un nuovo piccolo centro commerciale, le strade più importanti sono più praticabili. Ma non si può nascondere il passato.
In uno dei miei ultimi viaggi sono stato al memoriale del genocidio, alla vigilia del 15° anniversario della strage, e ho visto il «ritorno» delle ultime vittime riconosciute con l’esame del DNA: erano 780 bare caricate su tre Tir. Ordinatamente venivano consegnate e accolte da una catena umana, trasportate di mano in mano per un ultimo saluto, dentro l’ultimo abbraccio dei parenti. La comunità di Srebrenica riunita in quell’occasione lanciava il suo grido di dolore: ora sappiamo che ci siete, abbiamo dato un nome alle ossa ritrovate nelle fosse comuni e finalmente vi collochiamo nella terra dove potrete riposare.
Peccato che questo grido che si ripete puntualmente ogni anno cada nel vuoto e nel disinteresse generale; certo qualcosa è stato fatto, il tribunale dell’Aia ha riconosciuto il genocidio, coloro cheàhanno ordinato la strage sono stati consegnati alla giustizia, ma purtroppo gli esecutori materiali dell’eccidio continuano indisturbati le loro vite.
Forse per questo è così difficile il rientro dei profughi alle loro case, forse è per questa ragione che oggi di musulmani a Srebrenica non ce ne sono quasi più.
L’11 luglio 2015 saranno passati 20 anni dalla strage; la cerimonia drammatica si ripeterà per consegnare alla terra altri ultimi «riconosciuti». Forse in quell’occasione i media daranno qualche risalto al triste anniversario, ma per i famigliari delle vittime non si concretizzerà il giusto riconoscimento e il necessario percorso di giustizia.
E noi a casa nostra continueremo a credere alla favola del principe azzurro di nome PIL che con un bacio risveglierà i consumi e ci consentirà ancora di vivere felici e contenti e di dimenticare una volta per tutte le brutte esperienze di Bosnia e Srebrenica.