Ci vorrebbe Tex Willer
Tex Willer, il personaggio più famoso e longevo del fumetto italiano, compie in questo 2018 settant’anni giusti giusti. Se poi si pensa che, appena nato dall’unione artistica di Giovanni Luigi Bonelli e Aurelio Galleppini, già veleggiava sulla cinquantina, e se si sommano le sue centinaia di avventure, le lunghe e sfiancanti cavalcate, le fredde notti all’addiaccio, gli infiniti duelli, bisogna riconoscere che la sua attuale e invidiabile forma fisica ha qualcosa di portentoso. Altro che Berlusconi!
C’è poi un fatto – arcinoto a chi ha una qualche dimestichezza con il personaggio – e cioè che Tex Willer non solo è genuino ma è «politicamente corretto». Non da ora, ma da decenni a questa parte, il suo secondo nome è «Aquila della Notte». Come Tex, in coppia con l’ormai ultracentenario Kit Karson, svolge il suo dovere di integerrimo ranger, con tanto di stella al petto, mentre come Aquila della Notte (senza stella) è il capo della malridotta tribù indiana dei Navajos. Sempre dalla parte della legge (meglio di Raffaele Cantone). E sempre dalla parte dei deboli e degli oppressi (come don Ciotti o Gino Strada).
Ora, scusate la domanda ingenua: perché Tex Willer non si fa un bell’esame di coscienza? Perché non si guarda un po’ intorno? Perché non si rende conto che in settant’anni di onorata carriera ha ormai sgominato tutte le bande di tagliagole, ha soccorso tutte le vedove e tutti gli orfani, ha aiutato tutti i poveri indios, ha riparato tutti i torti? Che insomma, grazie a lui e ai suoi pards, il vecchio West è diventato un posticino affatto tranquillo?
Non sarebbe ora che Tex, anche per onorare i suoi natali, incominciasse a darsi da fare da questa parte dell’oceano? Dove cominciare? Mafia e corruzione, poveri vecchi e giovani disoccupati, femminicidi e morti sul lavoro. Aquila della Notte avrebbe solo l’imbarazzo della scelta.
Ho visto in questi giorni le immagini e letto i reportage dagli USA: 386 città americane invase da una marea di giovani e giovanissimi. Non avevano dietro nessun partito, sindacato o grande organizzazione. E nessuno l’aveva previsto. A Washington erano mezzo milione a marciare e a chiedere di fermare le armi che ogni giorno uccidono gli innocenti. A tirarsi dietro una simile folla sono stati i ragazzi della scuola superiore di Parkland, i compagni degli studenti uccisi. La manifestazione contro lo strapotere della lobby delle armi si è conclusa proprio di fronte alla Casa Bianca, dove c’è un presidente che pensa addirittura di armare gli insegnanti…
A vedere quei ragazzi, la maggioranza erano liceali, cioè ancora minorenni, invadere le strade e le piazze come un fiume colorato, mi è tornata in mente una vecchia canzone di Giorgio Gaber: «C’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza. C’è solo la voglia, il bisogno di uscire, di esporsi nella strada e nella piazza. Perché il giudizio universale non passa per le case, gli angeli non danno appuntamenti, e anche nella casa più spaziosa non c’è spazio per verifica e confronti».
Un paio di mesi fa le strade e le piazze erano state protagoniste di un altro evento straordinario. Ancora in America, ma anche in Europa e in tutto il mondo, milioni di donne (e tanti uomini) hanno marciato per dire basta alla violenza sulle donne.
«Scusi, mi può dire dove passa la storia?». La domanda non è poi così ingenua. Per più di un secolo, l’idea liberale, come quella progressista, ammetteva una sola risposta: dalla democrazia rappresentativa, cioè dalle urne, dalla libera espressione del popolo sovrano. Dopo le parentesi tragiche del nazismo e dello stalinismo, questa scommessa è stata riproposta – riveduta, corretta, ampliata – anche dopo la seconda guerra mondiale. Così le carte fondamentali dei paesi liberali e democratici, compresa la nostra Costituzione, propongono – impongono – la sovranità popolare, la libertà d’espressione e lo strumento principe del suffragio universale.
Oggi, se è possibile tentare un bilancio provvisorio nel primo scorcio del nuovo millennio, questa grande scommessa politica sembra entrata in una crisi profonda. È sempre più difficile credere che il nostro futuro esca dal responso di un’urna. È invece sempre più chiaro che il governo degli Stati e del mondo, e più in generale la nostra felicità o infelicità, è pesantemente condizionato da potentati economici e finanziari sovranazionali, da un Golem spietato e invisibile.
In un presente segnato più dalla frustrazione che da un’effettiva – e non solo formale – sovranità popolare (su questo occorrerebbe riflettere per ricercare le radici profonde dell’astensione e del non voto), succede però di assistere a un evento imprevisto: è il caso delle grandi marce delle donne e degli studenti americani.
Pensavamo che le strade e le piazze non contassero più niente, che fossero state sostituite dalla chiacchiera della rete. Pensavamo che il «quarto stato» di Pellizza da Volpedo fosse solo un bel quadro, molto emozionante, ma decisamente preistorico. Invece a volte – almeno qualche volta – il popolo dimenticato dai politici si riaffaccia sulla scena della storia. Esce di casa e scende in strada.
È l’uomo più ricco del mondo, la sua azienda ha quasi 2 miliardi di clienti, la faccia da ragazzone americano, giovane, liberal quanto basta, e molto smart. Qualcuno lo aveva addirittura indicato come prossimo presidente degli Stati Uniti: la new economy di Mark Zuckerberg che prende il posto del palazzinaro Donald Trump.
Oggi, dopo lo scandalo della vendita dei dati per influenzare le elezioni degli Stati di mezzo mondo – lui stesso ha ammesso che solo in Europa sono stati «venduti» circa 3 milioni di «clienti» -, dopo qualche miliardo perso nel crollo di borsa, Zuckerberg è leggermente meno ricco. Ma solo leggermente. Gli analisti finanziari sono concordi: la corazzata Facebook si riprenderà alla grande.
Il commento più intelligente – anche se un po’ cinico – è stato il seguente: «Ma come, davvero credevate che qualcuno vi regalasse qualcosa (la più grande piattaforma del mondo) senza prendersi qualcosa in cambio?». Già, è vero. Peccato che quel qualcosa fosse la nostra identità: amici, interessi, pensieri, preferenze, sogni…
«Il Grande Fratello» ce lo eravamo immaginato in un’altra maniera: un potere assoluto, dittatoriale, cattivo. Invece il Grande Fratello ha una faccia gentile, arriva in punta di piedi e ci sorride dalla faccia dei social.
Dobbiamo smettere di usarli? Non credo, ma smettiamo almeno di idolatrarli come fossero la strada per la democrazia dal basso, l’espressione dei nuovi diritti universali. E cominciamo a difenderci, mettiamo un Post-it sul pc e sullo smartphone: «Usare con cautela!».
150, no, sono già 160. E mentre scrivo il conteggio continua a salire. Quasi due morti al giorno, sono i morti sul lavoro: caldaie che scoppiano, serbatoi contaminati, impalcature senza protezioni… Molti più morti dell’anno scorso. Concentrati soprattutto dove l’economia ha ricominciato a tirare. Perché, si sa, l’economia vuole il suo tributo di sangue operaio.
Naturalmente così non dovrebbe essere: almeno in un’economia che avesse al centro l’uomo e non il massimo profitto. Intanto i telegiornali ne parlano, anche questo fa notizia. Ma ci sono delle morti più importanti: come ad esempio quella di Fabrizio Frizzi che per giorni ha occupato tutti i palinsesti. I morti sul lavoro possono benissimo andare in coda. Fabrizio Frizzi ha lavorato quarant’anni per la Rai, è perfino giusto che la Rai lo ricordi, ma mettere la sua morte prima dei tanti operai morti è il segno evidente di quanto la televisione sia diventata autoreferenziale. Racconta sé stessa e sempre meno l’Italia reale. Se poi qualcuno o qualcuna vuole «un quarto d’ora di celebrità», può sempre iscriversi a qualche quiz. È proprio il caso di dirlo: «Avanti un altro!».
Riuscirà il saggio quanto democristiano Mattarella a far ragionare vincitori e vinti e dare un governo all’Italia? Non è dato saperlo. Intanto, in un fumoso clima da Prima Repubblica, continuano le consultazioni. Di Maio e Salvini alternano aperture a veti contrapposti… Berlusconi tesse la sua tela per non restar fuori dai giochi… il povero reggente Martina prova a tener insieme un partito terremotato. Forse, è quello che spero, quando leggerete queste note, la politica italiana sarà uscita finalmente dall’impasse del dopo-elezioni. Magari per buttarsi a capofitto in un’altra campagna elettorale.
Quello che è del tutto evidente è che i nuovi leader – i vincenti o quasi-vincenti – hanno imparato in fretta la lezione e appaiono del tutto simili ai vecchi. O sono ancora più bravi: dichiarano ogni giorno che la loro prima e unica preoccupazione è «il bene del Paese», mentre preparano trabocchetti a partiti avversari o alleati.
Viene il dubbio che a nessun partito interessi veramente governare: per quello c’è sempre tempo e alla fine sarà un compito complicato e assai pericoloso. Molto più produttivo (in termini di voti) stare sempre e comunque in campagna elettorale: per prendersi una rivincita o per vincere ancora meglio, poco importa. In fondo, le promesse elettorali non costano nulla e a rimetterci è soltanto l’Italia.