Carcere e misericordia

di Favaro Ornella

Leggendo le Memorie di una casa morta di Dostoevskij, ricordo che mi aveva colpito il fatto che, nella tradizione russa, i criminali si preferisce chiamarli «infelici». Quando poi ho cominciato a far volontariato in carcere, e ho messo insieme una redazione di «delinquenti» per fare un giornale, ho ripensato a quella «infelicità» di cui parlano i russi, e ho cercato di vedere nei detenuti che avevo intorno a quel tavolo a discutere con me, «persone, non reati che camminano», persone che hanno provocato sofferenza, ma persone anche «infelici», cariche di dolore. Perché il carcere non è solo privazione della libertà, è distruzione degli affetti, famiglie umiliate che si possono incontrare poche ore al mese in stanze affollate e rumorose. È malattia, i corpi reclusi sono di per sé corpi mutilati, costretti a vivere in spazi angusti e malsani. È rischio di suicidio, perché a volte l’assenza di speranza, di capacità di costruire un progetto per il futuro, toglie tutta la voglia di vivere. Eppure la «società civile» non è riuscita a provare un sentimento di misericordia neppure di fronte al suicidio in carcere di un ragazzo albanese, colpevole sì di un orrendo delitto, la rapina e il duplice omicidio di Gorgo al Monticano, ma degno almeno del rispetto che si dovrebbe provare di fronte alla morte. E invece no, in tanti allora dissero che, suicidandosi, quel ragazzo se l’era cavata troppo bene, sottraendosi alla sofferenza perpetua dell’ergastolo.

Avvicinarsi al carcere per sentire

Il progetto con le scuole, che portiamo avanti da qualche anno, introducendo le classi degli alunni in carcere, ci ha costretto a confrontarci con quello che forse è davvero il sentimento della misericordia, che per noi si traduce nel desiderio di una giustizia mite. Però se vogliamo, in un momento in cui tutti chiedono pene più dure e più galera, far capire il valore di una giustizia mite, compassionevole, attenta alle persone, abbiamo bisogno di affrontare un percorso difficile, segnato da alcune tappe importanti:

  • dobbiamo ridurre la distanza che c’è fra il carcere e la società, rovesciando le certezze di chi pensa che a commettere reati siano i «predestinati»; e invece potrebbe capitare a tutti, la vita a volte fa scherzi strani, basta pensare alla storia di Erika e Omar, e a quel padre che un giorno era il marito e il padre di due vittime, e il giorno dopo è diventato anche il padre dell’assassina;
  • dobbiamo far capire, attraverso le testimonianze delle persone che stanno scontando una pena, che non esistono «i mostri», ma persone, che a volte possono fare cose mostruose. È una prospettiva radicalmente diversa, perché se riusciamo a spiegare che può capitare a casa nostra, a qualcuno che ci è molto caro, di perdere il senso della realtà, di non riconoscere il limite, allora forse riusciamo anche a far capire che la pena deve essere mite, pensata come se a doverla scontare fosse non «il mostro» che non ha niente a che fare con noi, ma una persona che ci sta vicino e che ci chiede di avere verso di lei quell’umanità che lei non ha saputo rispettare quando ha commesso il reato;
  • dobbiamo riflettere, assieme ai ragazzi, sul perché è illusoria la loro fiducia nella razionalità delle proprie scelte, sul fatto che ci si possa sempre «pensare prima». E invece no, tante volte non si riesce proprio a pensarci prima, se non riconosciamo in noi la presenza di un lato oscuro, che può sfuggire al nostro controllo.

Quando gli studenti chiedono provocatoriamente a me, che faccio la volontaria in carcere, come reagirei se facessero del male a qualcuno a cui voglio bene, sottintendendo che in quel caso neppure io sarei tanto «compassionevole» con i detenuti, io rispondo che non ho nessuna certezza, so solo che voglio allenarmi a quella che davvero si può definire «misericordia», cioè a non volere per il condannato una pena fatta esclusivamente di sofferenza. Un aiuto, in questo allenamento, l’ho avuto da un lungo confronto, che abbiamo avuto nella nostra redazione, tra autori e vittime di reato. Quando Benedetta Tobagi, a cui, quando aveva tre anni, un commando di terroristi ha ucciso il padre, è venuta a parlare con persone che hanno ucciso, rubato, rapinato, per «spezzare la catena del male», ha dato a tutti una lezione precisa: che forse bisognerebbe smetterla di «nascondersi» dietro le vittime per giustificare un desiderio di giustizia vendicativa.