Buoni e cattivi
Tutti noi, per sopravvivere nella società contemporanea, ci raccontiamo il mondo, noi stessi, gli altri, utilizzando semplicistiche categorie che attengono al senso comune… il buono e il cattivo, il bello e il brutto eccetera. E ne siamo così tanto convinti che crediamo che queste categorie siano oggettive e soprattutto che rappresentino le persone in modo rigidamente differenziato.
E allora quando sentiamo alcune notizie di cronaca nera, eccoci pronti a individuare subito il cattivo (che spesso è stato realmente tale per quella sua azione) e a sentirci tanto buoni, mettendo in atto subito un meccanismo di differenziazione.
Certo, i meccanismi difensivi – ce lo spiega la psicologia – sono vitali per mantenere un equilibrio, e anche le «certezze» che ci siamo costruiti sono le fondamenta delle nostre personalità. Peròànon si può non evidenziare che l’intero meccanismo è fittizio e molto soggettivo.
Insomma, la realtà la costruiamo noi stessi, attraverso il nostro linguaggio e le nostre abitudini (si pensi solo al potere di omologazione di alcuni messaggi massmediatici) e costruiamo così anche la realtà altrui, spesso utilizzando semplici parole che però possono etichettare gli altri e attribuire loro un tale significato di inferiorità sociale da relegarli realmente ai margini della società.
Dentro questi margini, forse nei più lontani, c’è un contenitore che racchiude tutti i brutti e cattivi: spesso è ubicato nella periferia delle città, celato da alte mura di cinta, lontano dalle nostre confortevoli dimore.
Questo è per molti il carcere. Il luogo (o non luogo) utile, per non dire necessario, ma lontano; e che se è vicino fa paura (un po’ come le discariche) e deve essere allontanato.
Ma i suoi «ospiti» sono davvero tanto diversi da noi? Alcuni sì, è innegabile, per cultura, per esperienze, per storie di vita ma ci dobbiamo interrogare sul perché alcuni hanno una vita così diversa dalla nostra, magari senza poter scegliere altre strade, senza poter accedere a percorsi formativi e lavorativi, o persone che hanno subito processi di deprivazione.
Altri, invece, sono molto simili a noi… eppure li avevamo messi nella casellina «cattivi» e noi ci siamo messi in quella dei «bravi» e dei «buoni». C’è qualcosa che non va…
La realtà, infatti, è molto più complessa delle letture lineari e semplicistiche che operiamo, le categorie spesso non sono così differenziate e le storie di vita, pur opposte, si possono, a un certo punto, incontrare.
E quando si incontrano è l’incontro tra persone. Tutti noi dovremmo essere interessati alle persone e ancor più a quelle persone che hanno sbagliato e che devono essere reinserite nella società, cioè tra noi. E lo dovremmo fare non solo per motivi etici ma anche pratici e utilitaristici: perché se il carcere funziona, è una istituzione efficace, le nostre città saranno più tranquille e ci saranno meno reati.
Il mondo del carcere è variegato, pieno di persone che per motivi diversi si sono trovati a violare la legge, spesso con conseguenze irreparabili e deve essere interesse di tutti che il carcere funzioni e produca sicurezza e che sia il luogo della legalità.
Il problema non è nei luoghi comuni: «là dentro stanno bene», «hanno addirittura il televisore», «stanno meglio di noi» (repertorio che spesso anima i discorsi da strada), ma invece: cosa fanno, dove andranno, come saranno. Eàciò dipende da molti fattori, anche culturali, nei quali sono coinvolti tutti i cittadini, anche quelli che sono «fuori» e che si sentono tanto diversi da «loro».
Anzi, proprio chi cresce e vive basando la propria esistenza sui valori sani, dovrebbe essere molto interessato alla legalità e ai diritti di tutti. Soltanto evitando di produrre processi di stigmatizzazione (dando etichette indelebili a chi ha sbagliato) si può costruire una società nuova, che include e non esclude e che soltanto così potrà essere più sicura.
Credo che tutti – anche chi inneggia a pene più severe e più dure – abbia come desiderio che non vengano commessi altri reati, anche perché la pena (magari davvero afflittiva e severa) se poi produce violenza, avrà anche soddisfatto l’emotività diffusa al momento dei fatti, ma poi mieterà altre vittime.
Inoltre, come possiamo, noi, «i buoni», auspicare la vendetta e il dolore altrui fine a sé stesso?
Ci sono esperienze intense e di grande spessore emotivo legate alla mediazione penale, cioè al lungo e graduale processo di presa di coscienza che porta il colpevole a incontrare e avvicinarsi a una sorta di riappacificazione con la parte offesa o i suoi familiari. Non tutti, per fortuna, vogliono solo vendicare le vittime.
Il discorso sul carcere è complesso e difficile, ma senza dubbio è di interesse comune. Un discorso che riguarda tutti… e poi, come scrive Robert Simon, non dimentichiamoci che nella complessa struttura umana, talvolta «i buoni lo sognano e i cattivi lo fanno».
Roberto Bezzi
responsabile area educativa
casa di reclusione di Bollate (Mi)