Biocombustibili da alghe
Le alghe, come le piante (superiori, ndr), sono organismi in grado di operare la fotosintesi e convertire l’energia luminosa in biomassa, cioè carboidrati, lipidi e proteine. Con estrema semplificazione si può dire che questi organismi utilizzano l’energia del sole per produrre sostanze che possono essere bruciate e restituire parte dell’energia immagazzinata. Questa conversione utilizza come materiali di partenza l’acqua e l’anidride carbonica presente nell’atmosfera e oggi responsabile dell’effetto serra e del riscaldamento globale.
La fotosintesi è alla base della sopravvivenza di tutti gli organismi viventi della Terra, che usano la biomassa prodotta dagli organismi fotosintetici per ricavare l’energia che sostiene la loro esistenza. La specie umana, oltre a utilizzare le piante (o animali erbivori) come fonti di sostentamento, ha da diversi millenni utilizzato la biomassa per altri scopi: il legno per il fuoco e, più recentemente, il petrolio che deriva anch’esso dalla fotosintesi avvenuta milioni di anni fa.
Negli ultimi anni si parla sempre più della possibilità di utilizzare organismi viventi per produrre combustibili alternativi al petrolio (biocombustibili o biofuels); in questo caso si tratterebbe di utilizzare la biomassa non per l’alimentazione ma per la combustione. I primi esempi sono stati l’utilizzo di piante già coltivate a scopi alimentari, cambiando però la destinazione dei prodotti. I casi più noti sono probabilmente lo zucchero da canna, dal quale si può produrre etanolo, oppure le coltivazioni di piante oleaginose (colza o girasole), sfruttate per produrre biodiesel.
Utilizzare piante coltivate allo scopo di produrre energia ha però dei limiti e il principale è la loro resa energetica. La resa è il rapporto tra il totale dell’energia che si ottiene alla fine del processo produttivo rispetto a quella investita, quindi quanta energia sotto forma di biodiesel o etanolo è stata prodotta rispetto all’energia investita nella coltivazione, tenendo conto di tutto il carburante usato per i trattori oppure del petrolio utilizzato per la produzione di fertilizzanti. Stime di questo genere non sono molto lusinghiere e la resa energetica delle piante coltivate è molto vicina a 1, almeno per le coltivazioni in climi temperati come l’Italia. Quindi, in una produzione del genere, si produce poca più energia di quanta ne viene investita.
Produzioni di questo tipo sono quindi poco efficienti dal punto di vista energetico, anche se possono rivelarsi economicamente vantaggiose in periodi di prezzi molto elevati dei prodotti petroliferi come nel 2008; inoltre, vista la scarsa efficienza di tali piante, per produrre quantità significative di combustibili bisognerebbe destinare superfici enormi alla coltivazione di queste specie, con una inevitabile competizione con le colture a scopi alimentari.
Quindi utilizzare piante già coltivate (vedi mais, canna da zucchero, ecc.) per colture a scopi energetici non può contribuire in modo importante alla soluzione del problema energetico, a meno di sostanziali cambiamenti nei metodi che sono oggi allo studio ma che non saranno applicabili a breve. Oggi per produrre un seme di girasole ricco in olio si richiede prima di costruire un’intera pianta che poi sarà buttata. Solo una piccola frazione dell’energia raccolta dalla pianta andrà a finire nel seme e quindi nel prodotto finale. La sfida consiste nel riuscire a utilizzare in modo efficiente anche il resto della pianta per produrre energia.
Un’alternativa
All’interno dei biocombustibili c’è una alternativa ed è quella di usare altri organismi fotosintetici, le alghe, che sono anch’esse in grado di operare la fotosintesi, quindi convertire l’energia del sole in molecole a elevato contenuto energetico. Le alghe hanno alcuni vantaggi rispetto alle piante che le rendono potenzialmente più produttive: non sprecano energia per costruire strutture come steli o tronchi, inutili allo scopo energetico. In aggiunta, le piante coltivate alle nostre latitudini hanno un’elevata stagionalità, quindi producono molto nei mesi estivi e nulla in quelli invernali, mentre un impianto di produzione di alghe (che si chiama fotobioreattore) può essere produttivo anche in inverno.
Nonostante le loro potenzialità, le alghe sono ancora poco conosciute rispetto alle piante che contano sull’esperienza di 5000 anni di agricoltura. Da una parte questo è uno svantaggio visto che gli impianti per la coltivazione di alghe non sono ancora efficienti quanto potrebbero. Tuttavia è anche un vantaggio, perché le piante che producono biodiesel (colza, girasole) sono già state selezionate da secoli per essere più produttive ed è difficile ipotizzare incrementi di produttività importanti, mentre per le alghe sono possibili grandi miglioramenti dalla genetica.
Viste le difficoltà, ci si può chiedere quale sia l’interesse a utilizzare organismi viventi per la produzione di energia. Ebbene, anche se oggi i processi di produzione energetica alternativa non sono abbastanza efficienti per essere economicamente competitivi con l’energia da petrolio, il principale interesse è che gli organismi fotosintetici per crescere e produrre biomassa utilizzano l’anidride carbonica. Quindi il loro utilizzo non porta nessun incremento della concentrazione di questo gas a effetto serra nell’atmosfera, perché emette solo ciò che ha precedentemente incamerato.
La ricerca di fonti energetiche alternative oggi deve affrontare due sfide: la sfida con il petrolio, che comunque è destinato a finire, la seconda è limitare l’accumulo dei gas a effetto serra, che sembrano essere causa di un aumento della temperatura. I biocombustibili possono contribuire per il momento a mitigare il secondo, mentre serve ancora tempo per dare una risposta competitiva al primo.