Berlino e la forza della memoria
C’è un paradosso che muove i suoi passi per le vie di Berlino. Esso è evidenziato dalla sua storia, contraddistinta da eventi plateali e finanche lugubri e tetri: prima il trionfalismo germanico dell’Impero e del Terzo Reich, poi le distruzioni spaventose della Seconda Guerra Mondiale, poi ancora la ferita sanguinante del Muro e infine quell’alone di libertà falsa e fuorviante, associata a un libertarismo che non la rappresenta sempre per quello che è.
Dove nulla è nascosto
Berlino è, in fin dei conti, una chiave di lettura della Germania contemporanea e della sua cultura molteplice e vivacissima, perché congiunge il rigore intellettuale tedesco con un’anima profondamente e acutamente libera, tollerante, desiderosa di pace e di giustizia dopo i lutti e le tragedie del passato.
Ogni strada berlinese è spazio di memoria e messaggio di liberazione. Questa è la ragione per la quale io a Berlino sto meravigliosamente bene e non tanto perché la città abbia le bellezze architettoniche e naturali che purtroppo non ha, ma perché Berlino si fa leggere subito senza riguardi né falsi pudori, mostrando le sue ferite, i suoi sentimenti e le sue linee.
Il «Denkmal für die ermordeten Juden Europas», presumibilmente il mausoleoàcon il nome più lungo e complicato del mondo, è l’esempio di questa linearità, dove nulla viene nascosto. La città che è stata assunta a simbolo di un sistema politico di morte e di sterminio, il nazionalsocialismo, apre nel suo cuore il sepolcro di un passato terrificante e dichiara che il ricordo dell’orrore ha una valenza taumaturgica sul presente e sul futuro. Guarisce dai mali e dalle follie del passato e riabilita sé stessi. Posta accanto alla Porta di Brandeburgo, questa testimonianza dichiara la volontà di ammettere una colpa e contestualmente di superarla con una grande esperienza di libertà.
Tutto a Berlino è ricordo
Ogni strada di Berlino, anche se sfigurata prima dalla guerra e poi dall’architettura e dall’urbanistica del socialismo reale, oggi rinasce a dispetto di un passato non da dimenticare, ma da ricordare. Tutto a Berlino è ricordo.
Lo è la Gedìächtniskirche all’inizio del Ku’damm, con il suo campanile spezzato accanto alla nuovissima chiesa eretta al posto di quella rasa al suolo. L’hanno chiamata «chiesa del Ricordo» per costruire un presente finalmente diverso e sgombro dai mali del passato. Essa oggi è una sfida alla violenza cieca e ottusa ed esprime l’orgoglio della nascita di ciò che è nuovo da ciò che era antico.
Lo è quel Reichstag violato più volte, prima dai nazionalsocialisti nell’incendio del 28 febbraio 1933 e poi dai sovietici nel maggio 1945. Il Parlamento, simbolo dell’unità nazionale, è stato lasciato a vegliare il nuovo Bundestag, costruito lì accanto e simbolo di un’unità ritrovata dopo decenni e ora espressa da un lungo braccio sospeso sulla Sprea, come se fosse un ponte coperto che si innesta sulla parte retrostante dell’edificio, edificata incredibilmente là dove prima passava il Muro. Una parte del Bundestag a ovest e l’altra a est, con un corridoio infinito che unisce non solo due ali di un palazzo astrattamente moderno, ma le ragioni esistenziali di un popolo.
Lo è ancora il Plìtzensee, luogo allucinante, drammatico e poco conosciuto, dove vado ogni volta. Era l’angolo delle impiccagioni degli oppositori anti-nazisti, dove le esecuzioni seguivano un rituale macabro. Quando un condannnato cadeva dal patibolo dopo lo strangolmento, si azionava la corda per lo strangolamento del condannato successivo. Dicevano che Hitler avesse voluto vedere più volte i filmati di queste esecuzioni capitali.
Quei ganci arrugginiti, circondati dal nulla, oggi sono un messaggio di opposizione coraggiosa al nulla che li ha prodotti e alla morte che li ha acuminati.
Lo è infine nei suoi musei ordinati e perfetti, nelle sue chiese vuote e silenziose, perfino nella bruttezza di Alexanderplatz, che è uno sfregio urbanistico che intende ricordare ancora la sciocchezza snaturante del socialismo sovietico. Quella piazza così sfigurata adesso pare dire a chi la visita che gli uomini non possono perdere la capacità di conferire la bellezza, sconfiggendo il grigiore ideologico e l’ottusità fatta sistema.
Povertà senza poveri
Berlino mi piace perché in essa si intravede il sogno del futuro nella forza della memoria. Ecco perché a volte nonàsappiamo più sognare né progettare. Forse perché abbiamo rimosso la nostra memoria di esseri umani e di popolo vivo.
E tuttavia Berlino è portatrice ancora di forme di contraddizione acuta, coltivando nel suo grembo una moltitudine di ubriaconi, di alternativi all’estremo, di abitanti della strada e di giovani persi in un mondo disumano e triste. La U-Bahn e la S-Bahn, le linee metropolitane sotterranee ed esterne, mettono in mostra un’umanità vilipesa senza una ragione apparente. C’è chi attribuisce la responsabilità a un disagio mai descritto né circoscritto, chi accusa una libertà generazionale eccessiva, chi semplicemente tace e non guarda.
La povertà di Berlino non è quella di New York o di Rio de Janeiro o di Lisbona. È invece una strana manifestazione di ribellione o forse un malinteso senso della trasgressione. Un borghese socialdemocratico perbenista come me non ha mai tollerato queste contraddizioni nel seno di una città bellissima, ma anche irrazionale, contestatrice e dal passato troppo sofferto.
Quella di Berlino è una povertà senza poveri in senso classico, ma con una disperata ricerca di un equilibrio mai trovato. Da una parte c’è una città ricostruita per lasciare assaporare a chiunque il valore della memoria e per alimentare la tensione verso il bene e la giustizia, una città costellata di strutture quasi perfette ed efficienti e attraversata da messaggi di pace, ma dall’altra parte c’è un’umanità ancora dispersa e divisa in due o tre o quattro o più parti. Il Muro non è passato solo fisicamente, ma ha lasciato il segno di una ferita difficile da rimarginare, come la traccia che è stato lasciata sull’asfalto di tutta la città là dove lo stesso muro passava: «Berliner Mauer (1961-1989)».
Guadagnare l’unità interiore
Berlino allora deve perdere la sua magia falsa di città trasgressiva per guadagnare la sua autenticità di città dove abita finalmente una comunità. Oggi essa è soprattutto una città che comunica sì una memoria per il visitatore, ma forse la perde per chi ci abita dentro. Non a caso a Berlino io sto benissimo quando la visito, ma non so se starei altrettanto bene se la abitassi. Mi affascina la sua concentrazione sull’esperienza della memoria, ma mi rende perplesso la sua confusione interiore e la sua difficoltà a trovare punti di riferimento.
Di fatto la città non ha un centro urbanistico e di conseguenza le manca sovente un centro spirituale, ma di una spiritualità laica e religiosa nello stesso tempo. Ecco perché la bellezza di Berlino è incompleta e contradditoria, come se le mancasse un’unità interiore.
Tornerei sempre a Berlino. Ci tornerò senz’altro. Essendo un borghese socialdemocratico, il suo ordine strutturale e il suo rigore amministrativo mi conferiscono tranquillità. Quanto al mio perbenismo facilmente portato allo sconcerto per le bizzarrie e per le trasgressioni della gente, resto ottimista: le città ferite sono come le persone sofferte. Hanno sempre qualcosa di bello e di nuovo da dire e, alla fine, hanno spazi enormi per crescere e messaggi bellissimi da lasciare.