Beni pubblici
Quante volte, nel tentativo di escludere il meccanismo di mercato o i privati dalla produzione e distribuzione di un bene o di una merce, abbiamo sentito invocare che quel particolare bene è un «bene pubblico», o con uguale significato «bene comune»? Quella di bene pubblico è una delle categorie di beni che non ci si cura mai di definire con precisione e che quindi è costantemente sottoposta a tali ambiguità da giustificare, in suo nome, tutto e il suo contrario. L’economia ha una definizione ben precisa di bene pubblico, spesso diversa da quella comunemente intesa nel dibattito politico. Bene pubblico è infatti un bene il cui consumo da parte di una persona non esclude il consumo da parte di altri (definizione economica). Nonostante ciò abbia molte conseguenze, non ne deriva necessariamente che questo bene debba essere prodotto dal settore pubblico (definizione comunemente usata per bene pubblico in ambiti non economici). La confusione tra queste due definizioni genera spesso dei cortocircuiti logici, poiché si usano nel dibattito termini simili per indicare concetti molto diversi. È quindi opportuno capire meglio, poiché spesso lo scontro politico è avvenuto esattamente su questi temi e su queste ambiguità. Consideriamo il caso più semplice e volutamente provocatorio: l’acqua, oggetto di un referendum. Essa è un bene pubblico? Chi voleva un’acqua prodotta e distribuita dallo Stato diceva di sì, che era un bene pubblico (o comune) e in quanto tale andava «protetto» dal mercato. In realtà non è un bene pubblico perché un litro d’acqua consumato da una persona non può essere contemporaneamente usato da un’altra persona. Purtroppo gran parte del dibattito pubblico (questo sì) si è fermato a questo, con uno scontro quasi ideologico tra favorevoli e contrari, senza analizzareàle motivazioni sul perché un bene non-pubblico come l’acqua dovesse essere eventualmente prodotto dal settore pubblico e non dal privato. E di ragioni se ne sarebbero potute trovare molte.
Innanzitutto la sua produzione potrebbe esigere impianti talmente grandi e una distribuzione talmente capillare che solo un monopolista potrebbe farla, e comunque non molte imprese in concorrenza tra loro. A quel punto potrebbe essere preferibile un monopolista pubblico rispetto a uno privato. Si sarebbe potuto anche obiettare che un privato non sarebbe riuscito necessariamente a garantire l’approvvigionamento in zone in cui la domanda era insufficiente o il trasporto particolarmente costoso, per cui il pubblico sarebbe stato più indicato. Si sarebbe anche potuto argomentare che la produzione d’acqua genera dei benefici o impone dei costi che non possono essere tenuti in considerazione da parte di un singolo imprenditore, ma che comunque hanno un impatto sulla collettività (chiamate esternalità). Si sarebbe potuto argomentare (ma questo, in verità, con scarso successo), che la gestione pubblica garantiva un’efficienza maggiore di una gestione privata, con dei prezzi minori.
Purtroppo, come nel caso dell’acqua, i dibattiti sull’intervento dello Stato in economia e sulla conseguente produzione di beni e servizi da parte dell’economia pubblica stessa si fermano a un livello di scontro ideologico che impone risposte semplificate ma che non aiuta a comprendere le ragioni che farebbero propendere verso una o l’altra decisione. Le risposte rimangono «preconfezionate» da appartenenze politiche e, a farne le spese, è un paese che avrebbe bisogno di un dibattito più pulito e libero per trovare le soluzioni migliori ai problemi.